Su Nadia, sul cancro, e su quell’argomento che le case editrici non vogliono

“Guarda Nadia Toffa…Non ha venduto come si sarebbe immaginato, con il suo libro… il cancro non piace alla gente, lascia perdere, fidati… Cambia argomento”.

Ricordo benissimo quando mi sono sentito rispondere per la prima volta in questo modo da una persona che sarebbe un eufemismo definire solamente esperta del settore editoriale. Era molto, molto di più. Un pezzo da novanta. E quelle sue poche parole – che ok, a suo modo erano un consiglio amichevole per evitarmi delusioni – avevano in realtà un senso chiaro e dilaniante: se vuoi scrivere un libro, lascia stare la malattia.

A quel consiglio però – a dirla tutta – non avevo dato troppo peso. Perché in fondo non avevo capito bene le critiche che aveva ricevuto la mia collega Nadia per il suo, di libro, quello in cui parlava della propria malattia. Non avevo approfondito, avevo letto qualche titolo sui social, credevo fosse solo qualche idiota sparuto che l’aveva criticata, ma in fin dei conti quel suo volume mi pareva davvero un fiore d’inverno (non a caso l’aveva intitolato “Fiorire d’inverno”) e quindi ero convinto che – come nel suo caso – potesse interessare anche un’altra storia –vera – simile alla sua, di un’altra persona che anche lei non voleva rassegnarsi e che, in un inverno profondo della vita, in una giornata con l’eclissi di sole, voleva fiorire, voleva splendere, nonostante tutto.

La “storia vera” che avevo intenzione di pubblicare è una vicenda che i miei lettori conoscono bene, perché con quella ho inaugurato il mio blog su Tgcom nel 2014, e anzi già prima – quasi dieci anni fa oramai – ne avevo parlato in un reportage realizzato per Verissimo. Dunque mi permetto di “tirarla fuori” di nuovo spinto dal disgusto di quanto letto sui social in queste ore. Spinto dalla voglia di gridare al mondo l’ipocrisia che vige nel mondo dell’editoria e che – nel mio caso specifico – mi ha fatto ritrovare in mille occasioni il “mio libro” accostato a quello di Nadia. Citata, incredibilmente, come “esempio negativo”, troppe volte.

La storia che avevo il pallino di pubblicare era semplice e la cito brevemente, di nuovo, per i miei lettori: quella di  Patrizia (che solo io chiamo così perché da tutti si fa chiamare Malena, avendo tre nomi), che conosco dai tempi del liceo e che a 26 anni era rimasta incinta ed era subito stata lasciata dal compagno, aveva poi scoperto di avere un mesotelioma, aveva perso la bimba, era stata sottoposta all’asportazione di un polmone ma nonostante tutto questo stava ancora lì in piedi a ridere, a combattere, a splendere. Anche con la spada di Damocle della morte sulla sua testa, da tanti anni.

Ero convinto, davvero, che la “solarità”di questa ragazza (che da sola non basta, chiaramente, ma va accompagnata con cure serie), questo suo esempio  di vita potesse colpire. E per sottolineare il tutto, ogni volta che spedivo il  manoscritto in giro allegavo anche il link del suo profilo instagram (https://www.instagram.com/mepaa81/?hl=it )  che di energia ne sprizza in ogni foto. Non era un caso che nel mio articolo di cinque anni fa su Tgcom io avessi usato come hashtag #Patriziasplendequandoballa. Vi ricorda qualcuno? Qualcuno che fino all’ultimo ha condiviso i suoi sorrisi in tv e sui social? Beati sorrisi!

Ero convinto, dicevo, che per pubblicare l’esempio di una ragazza così splendente avrei trovato le porte spalancate. E invece no. Invece aveva ragione quella voce al telefono: nonostante io avessi già pubblicato con case editrici importanti, nonostante “decine di migliaia di follower” tra i vari social (sicuramente efficace in questo mondo, lo so benissimo e la cosa mi è tornata “utile” ai fini di altre pubblicazioni, ad essere onesto), nonostante un lavoro pubblico in tv – nonostante tutto, c’era tra le righe di quel libro che proponevo quella parolina maledetta: cancro.

Cancro, quello che “alla gente non piace”. Quello da nascondere. Quello che “anche nel caso Nadia Toffa ha suscitato troppe discussioni… quindi non la citare, evita…”.

Poco importavano – a proposito del libro su Malena Patrizia, ma mutatis mutandis il discorso varrebbe per altre migliaia di storie – le mie spiegazioni, il mio dire “ma guardate, l’argomento è tragico ma lei è una amazzone, una guerriera che ha tentato di sorridere anche durante la chemio, pur di non fare stare male chi aveva accanto, pur di non precipitare”. Poco importavano i miei tentativi di spiegare come l’approccio di questa ragazza – come la nostra amica Nadia – fosse improntato ad una sorta di strano “umorismo nero” messo in atto per salvarsi dal buio.

Non è servito a nulla per mesi, quasi un anno. Come pure parlare e segnalare quella che a me – sarò stupido – sembra una genialata che questa ragazza si era inventata per staccare la spina dai pensieri negativi ogni tanto: dare un nome al suo cancro, per poterci parlare, per odiarlo, per maledirlo. Come a dire: l’unico insulto accettabile.

Lei, pensate, il suo mesotelioma l’aveva chiamato Josè. Gli diceva: “Josè sei un bastardo, hai rotto, esci da questo corpo!”. E ogni tanto, ancora oggi, scrive nei suoi post – finora indecifrabili se non per due o tre amici -, “Josè forse sta tornando”. Non è “bello”? A me sembra una cosa tragicamente forte e geniale.

Tutto mi sembrava perso, credevo che quel libro non avrebbe mai visto luce, mi ero rassegnato a pensare che “il cancro non deve esistere, bisogna vergognarsene e basta, forse sono io a sbagliare cercando di volerne parlare”.

Finché una prima casa editrice è rimasta folgorata da questa ragazza unica, e poi un’altra persona (Elisabetta Sgarbi di Baldini+Castoldi) ha creduto in Malena. È riuscita a vedere più in là, non ha visto nel racconto della malattia un limite, così come tutti quelli che avevamo incontrato, gli stessi che criticavano la scelta di Nadia di scrivere un diario o che dicevano che “il cancro non funziona”.

Perché Nadia (che non ho avuto la fortuna di conoscere se non nei racconti di alcuni colleghi che stimo) e Malena probabilmente erano simili. E probabilmente lo erano anche ad altre migliaia di persone che hanno deciso di fiorire d’inverno o di splendere quando ballano. Anche se non possono più ballare come prima, come Patrizia ad esempio, senza un polmone e con altri problemi che rendono incerto il suo prossimo futuro, purtroppo.

E io, ora che alla pubblicazione manca poco, cosa dovrei consigliare alla mia amica? Di non guardare i social? Di prepararsi perché – come con Nadia Toffa che aveva parlato di “un dono” a proposito del suo cancro che le aveva “insegnato” a vedere la vita in un altro modo  – su di lei si scateneranno gli haters, i leoni da tastiera? Cosa dovrei dire a Malena Patrizia, di evitare di pubblicare foto su instagram mentre sorride, perché magari migliaia di idioti non andranno oltre il proprio naso, diranno che se ride non sta male, senza capire che a volte quel sorriso e quella condivisione social serve proprio ad esorcizzare il buio?

Mi sono limitato a raccontarle una mia esperienza passata, di quando cioè ho pubblicato un libro con Davide, il papà di Lorys Stival (un libro credo e spero delicato, in cui non c’è spazio per il minimo particolare macabro né su gossip che riguardino Veronica Panarello). Ebbene, in quell’occasione, nonostante Davide avesse destinato i ricavi del libro ad un fondo vincolato intestato all’unico figlio rimastogli (e poi, sapete quando guadagna un autore da ogni copia venduta? Cercatelo), nonostante questo aveva ricevuto centinaia di insulti su Facebook. Persino minacce di morte al figlio piccolo. Da brividi, no?

I post, i social network, già. Meriterebbero un capitolo a parte per la loro capacità di essere – anche in queste occasioni – uno specchio della società, dei suoi peggiori istinti: a volte i miei post sui social hanno centinaia di condivisioni, migliaia di visualizzazioni. Quelli leggeri però, quelli con le foto in tv, con una battuta, con la forchetta che affonda nella pizza o in un piatto di pasta. Ma ad ogni post serio, anche le volte in cui ho parlato in passato di lei, di Malena Patrizia, chiedendo di condividere, beh in quei casi i “like” e i commenti hanno latitato. E quando ho scritto: “a ottobre uscirà “Io splendo”, il libro scritto con Patrizia Malena di cui vi ho parlato”? Quanti “like”, quanti commenti credete che siano arrivati? Quanti, rispetto alla mia foto sorridente al mare?

Torniamo alla difficoltà di pubblicare un libro in cui si parla di cancro. Dopo aver chiuso l’accordo con la casa editrice mi sono scontrato con un’altra “bestia nera”: la prefazione. Ho contattato alcune persone famosissime – e che tutti voi conoscete – che stimavo. Hanno sentito la parola cancro e hanno gentilmente declinato l’offerta, forse non volevano mettere il cappello, la faccia, su un argomento del genere. Oppure gli faceva troppo male parlarne, non lo so.

E se le cose sono andate così a me, che sono “del settore”, chissà come saranno andate a tanti altri “sconosciuti” che non hanno le “spalle larghe”. Con una eccezione, che mi piace citare – come esempio per fortuna positivo – cioè quella di un altro ragazzo di cui ho scritto già due volte qui su Tgcom: Simone Mori. Ha da poco pubblicato un piccolo volume “Storie di tenacia e tenerezza” con Aracne Editrice. A cui va un plauso perché ha messo nero su bianco il diario di Simone, le sue speranze, l’affetto delle persone che gli sono accanto nel suo lungo percorso – ancora non terminato del tutto – di malattia. Nomi di parenti e amici che non abbiamo mai visto ma che da quelle pagine ci sembra quasi di conoscere. Nomi di medici che vorremmo aver avuto, di fratelli di sangue e acquisiti.

Chiedo perdono ai lettori se per la prima volta in tutti questi anni di articoli e servizi in tv mi sono autocitato, se ho scritto di getto preso dalla rabbia nel leggere tanta ipocrisia a proposito della povera Nadia Toffa. Chiedo scusa se ho citato anche Malena Patrizia (uno dei miei esempi di vita), Nadia e Simone, mettendo tutti nello stesso calderone. Ma in loro ho ritrovato – pur con le dovute differenze – un tratto comune: la tenacia, la tenerezza, la luce, la voglia di continuare a fiorire e sorridere laddove possibile.

Spero solo che qualcuno capirà, che qualcuno capirà davvero che, in fondo, puoi chiamarla come vuoi, si può ritrovare in un libro che si chiama “Fiorire d’inverno”, “Io splendo” , “Storie di tenacia e tenerezza”, ma alla fine – stringi stringi – quell’energia, quella vitalità, quel modo di affrontare le situazioni va oltre ogni contingenza. Oltre ogni sfortuna, incidente, lacrima. E in fondo può essere utile, tanto, a chi quella “storia vera” la ascolta. Perché ti infonde forza, ti dà una speranza, anche quando purtroppo non ce ne sono più. È a suo modo una fede. Ti fa aprire gli occhi e ti fa, davvero, splendere, per te e per chi ti sta accanto. Nonostante tutto.

 

A Napoli il taxi dell’onestà

IL BOTTINO – “E tu che lavoro fai?” mi chiede il tassista che a mezzanotte sfreccia via dall’aeroporto di Napoli verso il mio hotel del Centro. “Il giornalista…”, dico io, sguardo al finestrino e il timore del solito pistolotto sulla casta. Sbaglio.

“Uaaa, davvero il giornalista? E allora scusa, te la posso fare una domanda? Ma perché di Napoli e dei tassisti si parla sempre male e una volta che c’è una buona notizia, non ne parla nessuno?”.

Sorrido. “Sentiamo questa notizia”. Ed ecco che Francesco Boccia – sì, come il deputato Pd – 34enne dai Quartieri Spagnoli si apre come un libro aperto a metà strada tra il romanzo di formazione e l’epopea verista: in ogni caso un libro che parla della sua vita, a partire dal motivo di orgoglio degli ultimi giorni, quella “buona notizia”.

“Qualcuno nel mio taxi ha lasciato una borsa con tre blocchetti di assegni” dice Francesco. Assegni vuoti, pronti per essere girati a qualche mariuolo che conosce le arti della truffa: “ma io non li ho neanche toccati eh”. Come pure per il pezzo forte del lotto lasciato, anche lui, sul sedile del taxi. “Un orologio di lusso, roba da tremila euro come questo qui” sorride mostrandomi foto scaricate da internet, prezziario mondiale consultabile con un clic.

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L’influencer positivo: contro il cancro con #tenaciaetenerezza

 

In alto c’è un “domani” in blu, in basso “abbraccio” in giallo. Spicca, di viola, un grande “perché”. E poi al centro, tutto di seguito come fosse un hashtag senza respiro, “tenaciaetenerezza” color carta da zucchero.

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Decine di parole, che formano – graficamente – una sorta di nuvola colorata, perfetta sintesi della vita di Simone Mori secondo l’algoritmo di uno dei giochini più diffusi di Facebook, “Le parole che io ho usato di più”, una sorta di summa dei nostri pensieri, delle speranze, delle opere e molte volte anche delle omissioni, cioè tutte quelle (di parole) che su Facebook spesso evitiamo di scrivere per non sembrare noiosi, meno interessanti o meno patinati. O forse, più semplicemente, veri. Perché la verità, la realtà, non sempre piace, sparata in faccia con i suoi spigoli che possono fare male.

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Serena Mollicone: anniversario con speranza

Quindici anni esatti di indagini, di segreti, di sospetti. Quindici anni di speranze e di attesa per Guglielmo Mollicone, il padre di Serena, ritrovata senza vita e con il volto coperto da un sacchetto di plastica il 3 giugno del 2001 in un bosco a pochi chilometri da Arce, il paesino vicino Cassino in cui viveva e da cui era scomparsa due giorni prima.

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È proprio a Cassino che bisogna andare con la mente, in questo anniversario simbolicamente carico di significati, perché è lì che la Procura sta continuando a lavorare, rimettendo di nuovo in discussione quella che era divenuta una certezza per molti, tranne che per la famiglia di Serena, dal padre Guglielmo allo zio Romeo, alla cugina Gaia: e cioè che non ci fosse nulla da fare, che non esistesse più nessuna pista da seguire.

E invece no. Non sappiamo quale destino seguiranno le nuove indagini, ma per la prima volta abbiamo assistito all’ingresso del Ris nella caserma di Arce, il luogo indicato fin dall’inizio dal padre di Serena come quello in cui “qualcosa” era di sicuro successo. Qualcosa di brutto, qualcosa di indicibile.

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Simone e la sua #forzaecoraggio

“Se la febbre non passa, mercoledì mi ricovereranno. Sbatterei la testa al muro ma cosa cambierebbe? E allora accettiamo il più possibile quello che la vita ci propone. Un abbraccio a tutti di vero cuore”.

Simone si chiama come me. Ha passato la trentina, ma non da troppo (credo), come me. Simone aveva tanti capelli ricci. Simone ora ne ha qualcuno in meno, ma ricresceranno. Simone sorride. Simone è forte come io non saprei esserlo mai. Perché Simone ha un linfoma, che io fortunatamente non ho, e lo affronta aprendosi al mondo, raccontandolo senza eroismi e senza pietismi. Anche da una stanza di ospedale, anche dalla chemioterapia.

Simone ha aggiunto una parola tra il suo nome e il suo cognome, su Facebook. Quella parola è quasi uno slogan, un hashtag, come quelli che si usano soprattutto su Twitter, come quelli che utilizza Matteo Renzi per comunicare la svolta buona. Simone ora è “Forzaecoraggio”.

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“Il linfoma si è riacceso.Inizierò una nuova tipologia di chemioterapia nei prossimi giorni. La strada diventa un po’ più difficile ma come sapete io non mollerò mai. Ci proverò sempre e comunque. Vi chiedo solo di avere pazienza se non rispondo subito a telefonate, sms, e Whatsapp. In ospedale è più complicato. Vi abbraccio forte ‪#‎Forzaecoraggio .

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L’Aquila, Rosa e la speranza di un Natale migliore

Regaliamole un Natale migliore. Stavolta vi chiedo dei soldi. Non per me però, sia chiaro. E in seconda battuta vi chiedo – se non avete nulla da donare (e ci può stare) – almeno di condividere questa storia, perché magari qualche vostro amico potrebbe essere interessato a dare una mano a Rosa.

Rosa è una anziana signora che vive all’Aquila. Una di quelle che con il terremoto hanno perso tutto. In realtà non si chiama neppure così, ma di usare il suo vero nome, capirete, non mi pareva il caso.

L’ho conosciuta nell’aprile del 2009 nel campo di Paganica, uno di quelli messi su in 24 ore dalla Protezione Civile per assistere gli sfollati del terremoto che aveva messo in ginocchio l’Abruzzo.

Ancora me lo ricordo quell’incontro, durante alcune interviste, una “vox populi” per raccontare la vita nel campo. D’improvviso, nel mezzo della risposta, questa signora anziana scoppia a piangere. A dirotto. “Signora si calmi”, le dico io. Non si ferma. Spegniamo la camera e lei – un fiume in piena – mi racconta tutta la sua vita.

Scopro allora che Rosa è sola, non è sposata e non ha figli. Ha lavorato tanti anni, fino alla pensione, come infermiera, e visto il tipo non dubito che sia stata una di quelle che hanno davvero dedicato la vita al prossimo. E’ malata, soffre di asma, grave, in tenda aveva la bombola con l’ossigeno. Non mancano altre patologie.

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Valentina Salamone, altri sei mesi di indagini

In un mestiere in cui – per forza di cose – le notizie che capita di dare sono spesso brutte e hanno a che fare con la sofferenza delle persone, oggi finalmente una “buona” nuova.

Ed è una notizia che racconta della speranza di una famiglia, una speranza che può continuare a bruciare come una solida fiammella, per altri sei mesi e – ne sono convinto – continuerà a farlo ancora per molto. Sei mesi, come quelli concessi di proroga alle indagini sull’omicidio di Valentina Salamone.

è sua la famiglia che può continuare a sperare, quella di questa ragazza di soli diciannove anni portata via da qualcuno che conosceva – chi sia stato sarà la Giustizia a dirlo, prima o poi – nell’estate di quattro anni fa. Qualcuno che le ha tolto la vita e ha simulato una impiccagione, per far credere che Valentina avesse deciso di andarsene di sua spontanea volontà, magari – come ha detto qualcuno – “perché le cose in famiglia andavano male”.

In questi anni i genitori, le sorelle e il fratello di Valentina (come anche le sue amiche), hanno dovuto sopportare ogni affronto e l’hanno fatto in silenzio, con discrezione. “Si è uccisa per colpa del padre, glielo devi dire” mi ha detto con la rabbia di un animale ferito, puntandomi un dito contro, uno di quegli “amici” che erano con lei l’ultima sera di vita di Valentina. Uno dei tanti ragazzi che – ne sono convinti gli inquirenti – sanno molto di più di quanto hanno raccontato.

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Perché la vita continua, è bellissima “e non mi posso lamentare”

Il primo post che ho pubblicato su questo blog raccontava la storia di Patrizia, sopravvissuta ad un tumore che l’ha costretta anche a perdere una bimba, al sesto mese di gravidanza. Dopo quel post ho ricevuto molti commenti, che non mi aspettavo. Non so perché ma qualcuno mi ha scritto per raccontarmi la sua storia. Due persone in particolar modo mi hanno colpito. Due ragazze che non ho mai conosciuto nella vita reale. Solo virtualmente, quello sì. Ne leggo i post, ci confrontiamo su argomenti di lavoro (siamo più o meno colleghi) e non, sulla trasmissione per cui lavoro.

Ecco, queste due ragazze mi hanno raccontato della loro malattia. Non lo avevano mai fatto, in mesi di chiacchierate virtuali e in decine di post commentati, dall’una e dall’altra parte. Sembravano due ragazze senza problemi: una famiglia serena, un lavoro altrettanto sereno e nessun tipo di “guaio”, tantomeno nell’ambito della salute.

Poi, un giorno, scopri di colpo, con un loro messaggio, la loro storia. Vera, che nulla ha a che vedere con la virtualità. Storie che ti fanno ripetere ancora una volta, “ma io ce la farei? Riuscirei a fare altrettanto?”. E capisci, di nuovo, l’importanza della vita, dell’amore, della forza di volontà. Li riporto integralmente, i loro messaggi, senza toccarli. Partono da due realtà e approcci lontanissimi tra loro: da una parte una malattia affrontata in maniera “condivisa” con familiari e amici. Dall’altra la volontà di farcela da soli, senza dire, senza parlare, con nessuno. Se non con gli occhi. Eppure il punto di approdo, il finale, è simile. E anche il retrogusto che lasciano in bocca a chi, comodo in poltrona, le legge come fossero pagine di un libro. Un libro basato su due storie vere. A voi la riflessione.

Ecco il primo messaggio:

“Quello che hai scritto mi tocca particolarmente. Da sei anni, ormai, anche io lotto contro il cancro. Un linfoma di Hodgkin, che mi ha tolto tantissime cose, ma mai la voglia di vivere e di sperare. Sono ormai alla settima recidiva in sei anni. Ho già affrontato oltre 30 cicli di chemio, due trapianti di midollo, la radioterapia, due anni fa l’asportazione della milza.

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Sorrisi, selfie e voglia di vivere (sempre di più, nonostante tutto): #patriziasplendequandoballa

Capita a volte, al giornalista di cronaca, di imbattersi in storie che palpitano di vita, che riempiono pensieri e categorie emozionali lasciate vuote o rese aride dal mestiere sul campo, taccuino o microfono in mano, sempre in viaggio.

Capita di incontrarle d’improvviso queste storie, e di non avere il “giusto” spazio in cui raccontarle: il giusto giornale, la giusta trasmissione, il giusto momento, il giusto sentimento.

E allora finiscono in un cassetto, in attesa di essere messe per iscritto. Condivise. Perché una storia più la racconti e più vive, forse.

La “rete” permette ora di superare questi limiti e fornisce al giornalista un prolungamento crossmediatico per raccontare gli sguardi in cui si imbatte quotidianamente. Ed ecco che nasce, così, semplicemente, “ungiornalistanellarete”, questo mio spazio su Tgcom24.

Quella con cui lo voglio inaugurare è la “storia” che forse conosco meglio, quella di una ragazza che per me è un esempio quotidiano, così normale e a tratti “superficiale” in apparenza – persa tra i mille selfie scattati con il suo smartphone -, quanto forte e tenace nel suo difficile cammino di vita. Perché i giudizi affrettati sono sempre sbagliati.

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Quella ragazza si chiama Patrizia, anche se – fanatica come è – da alcuni preferisce farsi chiamare con il secondo dei tre nomi che porta, decisamente più esotico: Malena.

Ed esotica Patrizia Malena è, in effetti: peruviana, 33 anni, la pelle dorata che d’estate imbrunisce, lei vive, ride, scherza e balla come e più di ogni altra ragazza che io abbia mai conosciuto. Nonostante tutto.

Patrizia infatti non ha più un polmone, da sette anni, e quello che rimane lavora al settanta per cento.

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Un mondo di baci(ni) per aiutare Ahmed: #unbacinoperahmed

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Le parole le ha sempre sapute usare bene, Ahmed Barkhia. Lo fa da quando è nato: una capacità unica di dipingere mondi con fare affabulatorio e fiabesco, per conquistare chi gli sta davanti tra mille racconti dal sapore futuristico. Da alcuni anni lo fa anche in una web radio, dai cui microfoni snocciola la sua filosofia, quella della “generazione startup”, dello “stare in movimento”, del “faccio cose, vedo gente” di morettiana memoria.

E nei suoi intensi racconti l’interlocutore potrebbe finire per perdersi, appassionandosi a quelle pagine da romanzo di Salgari, fino a immaginarselo – lui, affetto fin dalla nascita da nanismo ipofisario – nelle situazioni più disparate: magari eroe capace di mettere in fuga feroci rapinatori a mani nude oppure campione di calcio in grado di smarcare anche il Ronaldo dei tempi migliori, a San Siro, in una partita da manuale del calcio.

Quella che Ahmed sta vivendo ora sulla sua pelle però, di storia, non è facile da raccontare. Persino per chi come lui le parole le fa girare come un giocoliere con i birilli, lanciandoli in aria con maestria. Continua a leggere