Anno 2015: l’estate del #ciaone

A certe cose bisogna rassegnarsi: in Cina esistono l’anno del serpente, quello del maiale, quello del dragone e così via. In Italia invece,altro che animali, il 2015 è stato l’anno del #ciaone. Inutile negarlo, impossibile non vederlo, la sua diffusione si è estesa a macchia d’olio ed è stato (ab)usato in qualunque modo, sfoggiato, adattato e piegato ad ogni situazione.keep-calm-and-ciaone

Più di una canzone di Alexia negli anni Novanta, più del “dammi tre parole, sole cuore amore” di Valeria Rossi, il tormentone di questa estate non ha neppure la musica di sottofondo e non è composto da tre parole, ma da sei lettere magiche (mah): c-i-a-o-n-e. Insomma, “ciaone is the new black”.

 

Ci ho provato più di una volta, sbracato al sole senza altri pensieri seri, a trovare una spiegazione logica sul perché un semplice saluto che finora, in fondo in fondo, mi era stato sempre simpatico – il caro e vecchio “ciao” – sia stato ingigantito fino ad assumere le sembianze di un gggiovane e figo “ciaone”. Risultato: zero, vuoto totale. E allora la mente è volata ad altri esempi simili che hanno invaso i social network negli ultimi anni.

In principio furono le ragazze che si autoimmortalavano con la boccucca stretta stretta, solitamente davanti allo specchio del bagno (testimone silente della scena, il wc alle loro spalle). Poi arrivò la foto di gambe e piedi sulla spiaggia, primo tormentone iconografico di Facebook, sbeffeggiato da quel genio che pubblicò l’immagine di due wursteloni spacciandoli per gambe abbronzate (ricordate?). Poi ancora fu la volta (l’ho usata anche io, lo ammetto, con soddisfazione) della battuta “no ma… falle due gocce!” ad ogni temporale oppure del “no ma… magnatela ‘na cosetta” espressione virtual romanesca adottata presto nel resto d’Italia di fronte ad una tavola imbandita.

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Il Comune di Roma vuole sfrattare il Museo dei Videogiochi: #VIGAMUSNONSISFRATTA

È una vergogna. Finisce sotto sfratto – e dal Comune di Roma – Vigamus, il Museo dei Videogiochi (e molto altro) della Capitale, divenuto nell’arco di pochi anni punto di riferimento delle (sotto)culture giovanili romane, che in quei locali hanno trovato luogo di incontro, di sfogo, di espressione. Una realtà vivace da 80mila visitatori l’anno, tra i pochi musei del genere al mondo, gemellata con l’omonimo museo di Berlino. Tutto destinato a finire, forse. A chiudere, ad essere cancellato con un colpo di spugna. E questa cosa non può passare nel silenzio: è una questione non di principio ma di merito, di diritto di espressione.

Negli anni Ottanta la battaglia contro i videogiochi si combatteva sui giornali, dove i soloni dal dito puntato si ergevano a moralizzatori dei costumi, scorgendo proprio in quel mondo virtuale (il primo – o quasi – noto al grande pubblico) il declino dei costumi e un rischio per il benessere psicofisico dei propri figli. Il tempo ha dimostrato che avevano torto, come chi prima di loro (probabilmente gli stessi) aveva tuonato contro i cartoni animati, “violenti e ispiratori d’odio”.

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“Le più belle frasi di Osho”, quando la satira su Facebook incontra un santone indiano

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“Se po’ avè ‘n goccetto de sambuca?” dice in romanesco la scritta sopra la foto d’epoca che ritrae il “santone” indiano con una tazzina in mano. E “Chi non salta un Sai Baba è…” è invece il commento ad uno scatto in bianco e nero di lui in piedi, con le braccia alzate, davanti ad una folla adorante. Ancora: “No, ma falle due gocce”, mentre tiene in mano un ombrello.

 

Sono solo alcune delle decine, centinaia di immagini che stanno decretando in rete il successo della pagina Facebook Le più belle frasi di Osho, dissacrante satira che coinvolge Osho, al secolo Chandra Mohan Jain, discussa guida spirituale indiana (che ricorda in alcuni passaggi la figura di Sai Baba) che tra gli anni Settanta e Ottanta ha attirato prima nel suo Paese e poi negli Stati Uniti decine di migliaia di discepoli soprattutto occidentali innamorati della sua visione trascendente (e in buona parte discussa) della vita e del mondo.

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Un 25 aprile di Liberazione

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Nata per resistere l’Italia. Nata dalla Resistenza. Sono passati settant’anni da quando il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò l’insurrezione armata contro le milizie nazifasciste che occupavano il Paese: era il 25 aprile del 1945.

Cosa rimane di quello spirito, così alto? Rimane un’Italia che si fonda su una Costituzione democratica -tra le più belle del mondo -, frutto del giusto compromesso – e non al ribasso per una volta – tra diverse correnti di pensiero: quella liberale, quella cristiana, quella azionista, quelle socialista e comunista. Mai, mai prima di quel momento nel nostro Paese si era arrivati ad un punto di incontro così alto. Ed è per questo che la Resistenza deve essere un patrimonio comune e condiviso, che non può e non deve avere un colore politico, ma entrare invece nelle arterie di quello stesso Paese, come linfa vitale, come esempio civico per il futuro, ora che le generazioni che il dolore della Guerra l’hanno vissuto sulla propria pelle, si stanno spegnendo. Quel fuoco no, quello della libertà no, deve rimanere acceso. Deve Resistere anche lui.

Ed è nata per Resistere, dunque, anche l’Italia repubblicana. Al fascismo, come primo punto, dopo la barbarie che l’aveva sconvolta. Una ideologia totalitaria che – come tutti i totalitarismi – ha piegato un popolo e i suoi diritti per venti lunghi anni, ha provocato vittime, ha persino coltivato odio verso una categoria di cittadini – gli ebrei – vessati, umiliati e rinnegati, nella vita stessa e nella dignità umana, solo in nome di una ideologia. Di una esaltazione di massa, plebiscitaria.

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I sorrisi di Gina, che non c’è più

Appena pochi mesi fa avevo scritto un post su di Lei, per provare a raccogliere dei fondi per darle una mano, perché le sue condizioni di salute stavano precipitando. E in tanti si erano mossi, in quell’occasione. A quei tanti, ora, do una notizia triste, di quelle difficili da dare, le peggiori: Rosa non c’è più, non ce l’ha fatta. Si è spenta poco prima di Pasqua, in clinica, in quell’Abruzzo che amava e in cui aveva vissuto il dolore del terremoto.

Non è arrivata al sesto anniversario di quel sisma che le aveva portato via tutto e che l’aveva fatta scivolare in basso, sì, ma non nella dignità umana . Perché quella era restata alta fino all’ultimo.

Rosa, a dirla tutta, non si chiamava neppure così, ma Gina. Non avevo voluto scriverlo, il suo vero nome, quando a dicembre avevo fatto appello alla generosità dei miei lettori. Lettori che avevano risposto, eccome, a quell’appello: oltre mille e trecento gli euro raccolti in pochi giorni, sottovoce. Tanti, oltre ogni aspettativa.

A Gina ero andato a portarli io stesso quei soldi, nei primi giorni di gennaio, in macchina, “sfidando la neve” con una macchina prestata da amici perché io non avevo le catene a bordo nella mia. E così loro, che avevano letto la storia di Gins, avevano voluto contribuire in qualche modo  e mi avevano detto “ti diamo la nostra, vai pure”. E così quel regalo era arrivato a destinazione. Come a dire che i piccoli gesti, a volte, fanno la differenza.

Quel giorno lo ricordo benissimo. Gina la trovai sull’uscio di casa, ad aspettarmi con un gattino accanto. Mi fece impressione: era cambiata nell’aspetto, radicalmente, dall’ultima volta che l’avevo vista.

Di anni ne aveva 68 ma a vederla, ora, ne dimostrava almeno una decina in più. Un’altra persona rispetto a quella che avevo conosciuto all’Aquila nel 2009, seppur già provata da quella tragedia.

Ecco, certi incontri davvero non si dimenticano. Con Gina ci eravamo conosciuti durante una intervista nel campo di Paganica, con Lei che era scoppiata a piangere davanti la telecamera e io che inizialmente avevo quasi riso, perché era la quarta, quinta persona che lo faceva quel giorno – non so perché – e avevo pensato “ma dai, ma che succede oggi? Tutti a piangere?”.

Pochi secondi e il cinismo andò via, le sue parole mi presero il cuore. “Pensione sociale, sola, senza figli, casa popolare”, poche parole ma chiare: con il terremoto Gina si era ritrovata senza più nulla in mano, un passato finito nelle macerie dei palazzi crollati. Raccontai in un servizio la sua storia, tra le tante di quel periodo dolorosamente indimenticabile. Ma, oltre il lavoro, Gina mi era rimasta incollata alla vita, nel profondo dell’anima. Ne parlai con tutti, di quella signora che ogni volta piangeva a dirotto. Ed evidentemente ne parlai così tanto che un collega mise in una busta qualche centinaio di euro. Gliela portai, in uno dei miei viaggi all’Aquila. Le dissi “la apra dopo, c’è un pensierino”. Lei mi chiamò piangendo pochi minuti dopo, di nuovo, dicendomi di ringraziare quel collega. Anche a lui dovrò dare questa notizia, ora. E dirgli che Gins fino alle ultime telefonate si era ricordata di quel gesto, compiuto in silenzio, sei anni fa.

Passarono i mesi, ci perdemmo di vista finché un giorno mi chiamò per chiedermi aiuto. Quello che le stava accadendo aveva dell’incredibile: follie della burocrazia italiana, nessuno sembrava volerle ridare una casa popolare – che pure aveva prima del sisma – perché non aveva fatto la “domandina” giusta nel periodo in cui viveva nei campi degli sfollati.

Quella fu l’unica volta in cui minacciai “faccio arrivare la televisione, è uno scandalo!” chiunque mi capitò a tirò. Telefonate, mail, proteste. Non so se servì, ma alla fine la casa arrivò. E con Gina, ora che “la missione era compiuta” i contatti si fecero più sporadici.

Eppure lei c’era, c’era sempre. C’era, pronta a richiamarmi nonostante spesso non le rispondessi, preso dal lavoro, dalla vita e dai piccoli egoismi del “vabbè, poi la richiamo”.

C’era, Gina, pronta a dirmi “Simone! Ti ho visto in tv l’altra sera, ho detto alle mie amiche che io ti conosco!”.  Mai, mai una volta che ad un mio “Signora! Scusi tanto se non l’ho richiamata subito” lei rispondesse “Ma cinque minuti non li potevi trovare?”. Mai.

A Gina non potevi non volere bene. Non so nulla di più della sua vita di quanto ho scritto, non so che carattere avesse, se avesse peccati o crediti aperti con il Signore. Non lo so. So però che quella voce ce l’ho in testa, adesso che Gina non c’è più.

Quando sono andato a trovarla, a gennaio, riusciva a stento ad alzarsi dalla sedia. Impiegammo quasi dieci minuti per fare pochi metri fino alla porta, tra asma, dolori alla schiena, gambe gonfie. Sembrava avesse ogni tipo di malanno. Mi raccontò che di lì a poco sarebbe dovuta entrare in ospedale per sistemare alcune cosette. Era rassegnata ma io cercai di farle forza. A rivederla ora, quella scena, sembrava quasi che Lei, invece, sapesse tutto. Che a casa non ci sarebbe più tornata.

Quando le dissi di quei nuovi amici che avevano voluto farle quel regalo, quei mille e trecento e rotti euro, stavolta non ebbe sussulti. Ringraziò, contenta, ma continuò a guardare il vuoto. Quasi senza più la forza di sperare. Strano. Fu una sensazione che non raccontai quasi a nessuno.

Che strano incontro, quel nostro ultimo. Con lei che ricordava ancora di quando ero andato a trovarla con una mia fidanzata, nel 2011, ed aveva preparato un centrino da regalarle. Un piccolo regalo, lei che non aveva quasi nulla da dare.

Un sorriso, ecco cosa mi ha dato Gina. Perché un sorriso in fondo non costa nulla. Lo ha dato a me e alle persone speciali che avevano letto la sua storia qui, online, e prima hanno contribuito a mettere insieme quei mille  e trecento euro e poi, in questi mesi, l’hanno sentita per telefono, chiamandola di tanto in tanto per farla sentire meno sola. Io anche, l’ultima volta che mi aveva telefonato, avevo promesso di richiamarla a breve. Non l’ho fatto, purtroppo. Avevo deciso di farlo proprio quando ho saputo, poi, che Lei non c’era più.

Nelle ultime telefonate sembrava più serena, non so se si fosse accorta di quello che stava per accadere. Non so cosa sia successo, motivi di privacy mi impediscono di saperlo, ma forse non conta. Non importa, già. Quello che importa è quanto e cosa ogni persona che incontriamo nel nostro cammino ci lascia dentro.

Grazie a tutti quelli che hanno aiutato Gina, grazie a chi ha avuto un pensiero per Lei, una preghiera. Grazie, a nome suo e anche mio, di cuore.

La vera storia della mimosa e dell’otto marzo

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Chissà se qualcuno le avrà portato oggi un mazzolino di mimose, sulla tomba. Chissà se qualcuno le avrà dedicato un pensiero. Perché è a lei, a Teresa Mattei, che si deve questa usanza, quella di regalare piccoli rami di fiori dal colore acceso, giallo, come il sole.

È l’inizio del 1945 e in Italia si combatte ancora. Teresa ha solo 24 anni ma di storie da raccontare ne ha già molte: a soli 17 anni è stata espulsa da tutte le scuole del Regno d’Italia perché ha contestato le lezioni “in difesa della Razza”, con cui il Regime provava a imporre culturalmente le leggi Razziali antiebraiche, sulla scorta dell’esempio nazista.

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L’Aquila, Rosa e la speranza di un Natale migliore

Regaliamole un Natale migliore. Stavolta vi chiedo dei soldi. Non per me però, sia chiaro. E in seconda battuta vi chiedo – se non avete nulla da donare (e ci può stare) – almeno di condividere questa storia, perché magari qualche vostro amico potrebbe essere interessato a dare una mano a Rosa.

Rosa è una anziana signora che vive all’Aquila. Una di quelle che con il terremoto hanno perso tutto. In realtà non si chiama neppure così, ma di usare il suo vero nome, capirete, non mi pareva il caso.

L’ho conosciuta nell’aprile del 2009 nel campo di Paganica, uno di quelli messi su in 24 ore dalla Protezione Civile per assistere gli sfollati del terremoto che aveva messo in ginocchio l’Abruzzo.

Ancora me lo ricordo quell’incontro, durante alcune interviste, una “vox populi” per raccontare la vita nel campo. D’improvviso, nel mezzo della risposta, questa signora anziana scoppia a piangere. A dirotto. “Signora si calmi”, le dico io. Non si ferma. Spegniamo la camera e lei – un fiume in piena – mi racconta tutta la sua vita.

Scopro allora che Rosa è sola, non è sposata e non ha figli. Ha lavorato tanti anni, fino alla pensione, come infermiera, e visto il tipo non dubito che sia stata una di quelle che hanno davvero dedicato la vita al prossimo. E’ malata, soffre di asma, grave, in tenda aveva la bombola con l’ossigeno. Non mancano altre patologie.

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Il padre di Loris e quello sguardo impossibile da dimenticare

Loris: mamma esce da Questura, affranta e sorretta da marito
Ho intervistato ora Davide Stival, il padre di Loris, per Quarto Grado. Non ha voluto essere ripreso, solo la voce. Non ha quasi più dubbi, si è arreso davanti l’evidenza, l’evidenza dei filmati. Mai, dice, Veronica aveva dato un segnale di squilibrio. Mai lei ha tentennato in questi giorni, nessun segno di cedimento, nulla. E anche la mattina in cui Loris è morto, in quella telefonata che -secondo gli inquirenti – Veronica avrebbe fatto al marito dopo aver ucciso loro figlio, mai questa donna ha dato il seppur minimo segno che qualcosa di strano potesse essere accaduta: “Come è andata oggi, Veronica?”, “Bene, ho portato Loris a scuola e il piccolino in ludoteca”. Nulla, come se nulla fosse accaduto, come se non fosse lei quella madre assassina di cui parla la Procura.
La voce di Davide tremava, pallido in viso. E quegli occhi, quegli occhi che le telecamere non hanno ripreso – come lui ci ha chiesto – io non potrò mai dimenticarli. Occhi di un uomo distrutto, occhi persi nel vuoto, lo sguardo spento per sempre.

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Valentina Salamone, altri sei mesi di indagini

In un mestiere in cui – per forza di cose – le notizie che capita di dare sono spesso brutte e hanno a che fare con la sofferenza delle persone, oggi finalmente una “buona” nuova.

Ed è una notizia che racconta della speranza di una famiglia, una speranza che può continuare a bruciare come una solida fiammella, per altri sei mesi e – ne sono convinto – continuerà a farlo ancora per molto. Sei mesi, come quelli concessi di proroga alle indagini sull’omicidio di Valentina Salamone.

è sua la famiglia che può continuare a sperare, quella di questa ragazza di soli diciannove anni portata via da qualcuno che conosceva – chi sia stato sarà la Giustizia a dirlo, prima o poi – nell’estate di quattro anni fa. Qualcuno che le ha tolto la vita e ha simulato una impiccagione, per far credere che Valentina avesse deciso di andarsene di sua spontanea volontà, magari – come ha detto qualcuno – “perché le cose in famiglia andavano male”.

In questi anni i genitori, le sorelle e il fratello di Valentina (come anche le sue amiche), hanno dovuto sopportare ogni affronto e l’hanno fatto in silenzio, con discrezione. “Si è uccisa per colpa del padre, glielo devi dire” mi ha detto con la rabbia di un animale ferito, puntandomi un dito contro, uno di quegli “amici” che erano con lei l’ultima sera di vita di Valentina. Uno dei tanti ragazzi che – ne sono convinti gli inquirenti – sanno molto di più di quanto hanno raccontato.

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Perché la vita continua, è bellissima “e non mi posso lamentare”

Il primo post che ho pubblicato su questo blog raccontava la storia di Patrizia, sopravvissuta ad un tumore che l’ha costretta anche a perdere una bimba, al sesto mese di gravidanza. Dopo quel post ho ricevuto molti commenti, che non mi aspettavo. Non so perché ma qualcuno mi ha scritto per raccontarmi la sua storia. Due persone in particolar modo mi hanno colpito. Due ragazze che non ho mai conosciuto nella vita reale. Solo virtualmente, quello sì. Ne leggo i post, ci confrontiamo su argomenti di lavoro (siamo più o meno colleghi) e non, sulla trasmissione per cui lavoro.

Ecco, queste due ragazze mi hanno raccontato della loro malattia. Non lo avevano mai fatto, in mesi di chiacchierate virtuali e in decine di post commentati, dall’una e dall’altra parte. Sembravano due ragazze senza problemi: una famiglia serena, un lavoro altrettanto sereno e nessun tipo di “guaio”, tantomeno nell’ambito della salute.

Poi, un giorno, scopri di colpo, con un loro messaggio, la loro storia. Vera, che nulla ha a che vedere con la virtualità. Storie che ti fanno ripetere ancora una volta, “ma io ce la farei? Riuscirei a fare altrettanto?”. E capisci, di nuovo, l’importanza della vita, dell’amore, della forza di volontà. Li riporto integralmente, i loro messaggi, senza toccarli. Partono da due realtà e approcci lontanissimi tra loro: da una parte una malattia affrontata in maniera “condivisa” con familiari e amici. Dall’altra la volontà di farcela da soli, senza dire, senza parlare, con nessuno. Se non con gli occhi. Eppure il punto di approdo, il finale, è simile. E anche il retrogusto che lasciano in bocca a chi, comodo in poltrona, le legge come fossero pagine di un libro. Un libro basato su due storie vere. A voi la riflessione.

Ecco il primo messaggio:

“Quello che hai scritto mi tocca particolarmente. Da sei anni, ormai, anche io lotto contro il cancro. Un linfoma di Hodgkin, che mi ha tolto tantissime cose, ma mai la voglia di vivere e di sperare. Sono ormai alla settima recidiva in sei anni. Ho già affrontato oltre 30 cicli di chemio, due trapianti di midollo, la radioterapia, due anni fa l’asportazione della milza.

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