Ma per favore, non paragonate questo 25 aprile alla Seconda guerra mondiale

Il paragone è senza dubbio di facile presa ed efficace da un punto di vista comunicativo: evocativo di grandi sofferenze e – al superamento della crisi – di grandi speranze. Ma il torto peggiore che si potrebbe fare a quei tanti anziani che se ne sono andati a causa del Covid-19, sarebbe quest’anno paragonare – per le celebrazioni del 25 aprile, festa della Liberazione – la guerra di ieri all’oggi. Siamo d’accordo, fa bene Mattarella a dire che ci sarebbe bisogno dello stesso spirito. Ma, davvero, non facciamo paragoni tra  una guerra vera e questa emergenza sanitaria.

Sarebbe un errore e una mancanza di rispetto, perché significherebbe avere iniziato – ora che tanti tra gli ultimi testimoni di quella tragedia  se ne sono andati – a mistificare e demolire la Verità, il ricordo di quello che è stato uno spartiacque della Storia. Un evento davvero epocale in grado di cambiare il corso delle cose, di segnare la coscienza di un intero popolo per alcuni decenni. 

È vero, inutile negare che oggi c’è una parte d’Italia “in prima linea al fronte”: medici, infermieri e tutte quelle categorie a rischio e impegnate in una lotta quotidiana contro il coronavirus. Ma – reso il doveroso omaggio a loro, che cercano ogni giorni di strappare vite alla Morte – e tralasciando il paragone sul numero di “soldati” impegnati nella battaglia allora e nel presente, oggi la maggior parte della popolazione ha passato una quarantena in casa, al caldo, davanti alla tv, consumando panetti di lievito di birra e confezioni di farina per giocare alla pasta in casa.

Eppure a leggere i commenti sui social di chi non ha avuto – per sua fortuna – ricadute economiche o occupazionali da questa emergenza, sembrerebbe di leggere diari di guerra: chi si dispera per la mancanza dell’aperitivo, chi impreca per lo jogging vietato, chi si danna l’anima parlando di una limitazione della democrazia e della libertà.

A questi “partigiani dei social” bisognerebbe ricordare che “quella” guerra, quella terminata 75 anni fa, venne combattuta dai soldati al fronte ma anche da un intero popolo non per qualche mese ma per cinque anni. A loro bisognerebbe ricordare che in quegli anni Quaranta non c’erano file per riempire il carrello, ma al mercato nero. A loro bisognerebbe ricordare che in quella Italia in ginocchio si veniva da due decenni e rotti di dittatura in cui la parola libertà non era neppure contemplata. E quei nostri “nonni” che ora purtroppo se ne sono andati, erano gli ultimi testimoni viventi della sofferenza vera, della sobrietà della sofferenza. Delle coscienze stravolte dal dramma della guerra ed entusiaste della Liberazione.

Dopo quella guerra arrivò la ricostruzione di una Italia democratica, antifascista e pluralista, poi il boom economico. Oggi, in un tempo sospeso, in una società consumistica come la nostra – in cui dopo la prima settimana a casa, la fame di un popolo egocentrico ha spinto milioni di esibizionisti a cantare e applaudire sui terrazzi mentre file di bare sfilavano accompagnate (quelle sì) da carri dell’esercito – non si vedono invece grandi progetti di ripartenza, di Ricostruzione. E per di più il rischio è davvero che si finisca per trasformare la Liberazione dal nazifascismo in una più generica e buonista “Liberazione da tutti i mali”.

Il paragone con il passato è per certi versi impietoso, di sicuro inopportuno. Non ci sono realmente sguardi sul futuro oggi. Non ci sono veri piani Marshall. Non c’è una ipotesi reale di snellimento della burocrazia, non c’è alcuna rivoluzione in vista, quale che sia la ricetta politico economica che si volesse applicare, se liberale o progressista a guida statale.

Nel ricco 2020 se ne sono andati, quegli anziani che da poco più che bambini avevano fatto la guerra, mentre nessuno aveva pensato per tempo di fortificare le loro trincee, le Rsa. Mentre i nipoti o i figli sconsiderati portavano in casa la malattia dopo gli apericena pur sconsigliati dal Governo, “perché tanto è una cosa che riguarda solo i vecchi”. Figli e nipoti senza memoria dunque.

E allora no. Allora ricordiamoli sì, ma facciamolo ricordando il sacrificio di milioni di persone (tra soldati e civili) morti o feriti durante una guerra liberticida, fratricida. Chi ha avuto l’onore di conoscere dei partigiani di diverso credo politico (rossi, bianchi, gialli), sa che in fondo c’era un unico comune denominatore: la voglia di tornare liberi, di pensare al futuro, con entusiasmo.

Oggi no, il Paese si divide ancora sulle polemiche su Bella Ciao, canzone presa a simbolo della Resistenza, e sulla partecipazione o meno di alcuni esponenti Anpi alle commemorazioni, con un fuoco incrociato di polemiche che fanno male alla memoria di chi non c’è più.

È davvero questo il mondo per cui quegli anziani, quei testimoni dell’ultima Guerra mondiale, hanno lottato? Lo hanno davvero fatto per vederci parlare di “trauma” perché siamo stati privati del nostro cocktail del sabato sera, mentre ne parliamo con gli amici in una videochiamata o guardiamo l’ultima serie tv in streaming?

Almeno in loro onore, diamo peso e valore ai termini. Celebriamo la Liberazione, la fine della Guerra. Ma quella, non questa. E semmai, senza paragoni, prendiamo spunto da quella generazione e lavoriamo per mettere in piedi invece una nuova fase di crescita (fase 2, 3 o chiamatela come volete): economica e di diritti, di senso civico e di rispetto. Della Storia, di noi stessi e degli altri. L’unica banalità ammessa è che “bisogna conoscere il passato per vivere al meglio il presente e progettare il futuro”. Banale, è vero. Ma per una volta sarebbe la cosa migliore da dire.

di Simone Toscano

L’incredibile storia del mio amico, quasi Premier a Cinque Stelle

Citazione

di Simone Toscano

La politica di oggi in poche righe? Reggetevi forte, perché se me l’avessero raccontata, avrei creduto che questa storia incredibile fosse la trama di un film. Uno di quelli “giovani” e di controcultura, che si prendono gioco della realtà per raccontarla, dissacrarla. Ma questo purtroppo non è un film, è tutto vero e siamo nella “realtà 2.0” più pura. 
Sentite qua: il mio migliore amico ha 37 anni, una laurea Dams in tasca, un lavoro come attore e gestore di un teatro, una fede al dito, moglie e figlia.
Politica? Rappresentante di Istituto al liceo. Poi basta. Idee sì, tante, ma nessuna militanza, nessuna tessera in tasca. Zero. All’impegno in un partito ha sempre preferito altro, tra volontariato, mense per i poveri e via dicendo.
Succede però che il mio amico si chiami Marco Zordan. E che una settimana fa un suo omonimo – Marco Zordan da Arzignano – iscritto al Movimento Cinque Stelle, decida di candidarsi alle primarie grilline. E da lì, la vita de ilmioamicoZordan è cambiata.
È cambiata, perché – ironizzando su questa omonimia e ignaro di quello che ne sarebbe nato – ilmioamicoZordan pubblica per i suoi pochi amici su Facebook una schermata con i nomi dei candidati alle primarie a cinque stelle, e chiosa così: “#iocicredo Cliccatemi e sarò il vostro presidente! #m5s #primarie”.

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Il Comune di Roma vuole sfrattare il Museo dei Videogiochi: #VIGAMUSNONSISFRATTA

È una vergogna. Finisce sotto sfratto – e dal Comune di Roma – Vigamus, il Museo dei Videogiochi (e molto altro) della Capitale, divenuto nell’arco di pochi anni punto di riferimento delle (sotto)culture giovanili romane, che in quei locali hanno trovato luogo di incontro, di sfogo, di espressione. Una realtà vivace da 80mila visitatori l’anno, tra i pochi musei del genere al mondo, gemellata con l’omonimo museo di Berlino. Tutto destinato a finire, forse. A chiudere, ad essere cancellato con un colpo di spugna. E questa cosa non può passare nel silenzio: è una questione non di principio ma di merito, di diritto di espressione.

Negli anni Ottanta la battaglia contro i videogiochi si combatteva sui giornali, dove i soloni dal dito puntato si ergevano a moralizzatori dei costumi, scorgendo proprio in quel mondo virtuale (il primo – o quasi – noto al grande pubblico) il declino dei costumi e un rischio per il benessere psicofisico dei propri figli. Il tempo ha dimostrato che avevano torto, come chi prima di loro (probabilmente gli stessi) aveva tuonato contro i cartoni animati, “violenti e ispiratori d’odio”.

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“Le più belle frasi di Osho”, quando la satira su Facebook incontra un santone indiano

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“Se po’ avè ‘n goccetto de sambuca?” dice in romanesco la scritta sopra la foto d’epoca che ritrae il “santone” indiano con una tazzina in mano. E “Chi non salta un Sai Baba è…” è invece il commento ad uno scatto in bianco e nero di lui in piedi, con le braccia alzate, davanti ad una folla adorante. Ancora: “No, ma falle due gocce”, mentre tiene in mano un ombrello.

 

Sono solo alcune delle decine, centinaia di immagini che stanno decretando in rete il successo della pagina Facebook Le più belle frasi di Osho, dissacrante satira che coinvolge Osho, al secolo Chandra Mohan Jain, discussa guida spirituale indiana (che ricorda in alcuni passaggi la figura di Sai Baba) che tra gli anni Settanta e Ottanta ha attirato prima nel suo Paese e poi negli Stati Uniti decine di migliaia di discepoli soprattutto occidentali innamorati della sua visione trascendente (e in buona parte discussa) della vita e del mondo.

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Un 25 aprile di Liberazione

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Nata per resistere l’Italia. Nata dalla Resistenza. Sono passati settant’anni da quando il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò l’insurrezione armata contro le milizie nazifasciste che occupavano il Paese: era il 25 aprile del 1945.

Cosa rimane di quello spirito, così alto? Rimane un’Italia che si fonda su una Costituzione democratica -tra le più belle del mondo -, frutto del giusto compromesso – e non al ribasso per una volta – tra diverse correnti di pensiero: quella liberale, quella cristiana, quella azionista, quelle socialista e comunista. Mai, mai prima di quel momento nel nostro Paese si era arrivati ad un punto di incontro così alto. Ed è per questo che la Resistenza deve essere un patrimonio comune e condiviso, che non può e non deve avere un colore politico, ma entrare invece nelle arterie di quello stesso Paese, come linfa vitale, come esempio civico per il futuro, ora che le generazioni che il dolore della Guerra l’hanno vissuto sulla propria pelle, si stanno spegnendo. Quel fuoco no, quello della libertà no, deve rimanere acceso. Deve Resistere anche lui.

Ed è nata per Resistere, dunque, anche l’Italia repubblicana. Al fascismo, come primo punto, dopo la barbarie che l’aveva sconvolta. Una ideologia totalitaria che – come tutti i totalitarismi – ha piegato un popolo e i suoi diritti per venti lunghi anni, ha provocato vittime, ha persino coltivato odio verso una categoria di cittadini – gli ebrei – vessati, umiliati e rinnegati, nella vita stessa e nella dignità umana, solo in nome di una ideologia. Di una esaltazione di massa, plebiscitaria.

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I sorrisi di Gina, che non c’è più

Appena pochi mesi fa avevo scritto un post su di Lei, per provare a raccogliere dei fondi per darle una mano, perché le sue condizioni di salute stavano precipitando. E in tanti si erano mossi, in quell’occasione. A quei tanti, ora, do una notizia triste, di quelle difficili da dare, le peggiori: Rosa non c’è più, non ce l’ha fatta. Si è spenta poco prima di Pasqua, in clinica, in quell’Abruzzo che amava e in cui aveva vissuto il dolore del terremoto.

Non è arrivata al sesto anniversario di quel sisma che le aveva portato via tutto e che l’aveva fatta scivolare in basso, sì, ma non nella dignità umana . Perché quella era restata alta fino all’ultimo.

Rosa, a dirla tutta, non si chiamava neppure così, ma Gina. Non avevo voluto scriverlo, il suo vero nome, quando a dicembre avevo fatto appello alla generosità dei miei lettori. Lettori che avevano risposto, eccome, a quell’appello: oltre mille e trecento gli euro raccolti in pochi giorni, sottovoce. Tanti, oltre ogni aspettativa.

A Gina ero andato a portarli io stesso quei soldi, nei primi giorni di gennaio, in macchina, “sfidando la neve” con una macchina prestata da amici perché io non avevo le catene a bordo nella mia. E così loro, che avevano letto la storia di Gins, avevano voluto contribuire in qualche modo  e mi avevano detto “ti diamo la nostra, vai pure”. E così quel regalo era arrivato a destinazione. Come a dire che i piccoli gesti, a volte, fanno la differenza.

Quel giorno lo ricordo benissimo. Gina la trovai sull’uscio di casa, ad aspettarmi con un gattino accanto. Mi fece impressione: era cambiata nell’aspetto, radicalmente, dall’ultima volta che l’avevo vista.

Di anni ne aveva 68 ma a vederla, ora, ne dimostrava almeno una decina in più. Un’altra persona rispetto a quella che avevo conosciuto all’Aquila nel 2009, seppur già provata da quella tragedia.

Ecco, certi incontri davvero non si dimenticano. Con Gina ci eravamo conosciuti durante una intervista nel campo di Paganica, con Lei che era scoppiata a piangere davanti la telecamera e io che inizialmente avevo quasi riso, perché era la quarta, quinta persona che lo faceva quel giorno – non so perché – e avevo pensato “ma dai, ma che succede oggi? Tutti a piangere?”.

Pochi secondi e il cinismo andò via, le sue parole mi presero il cuore. “Pensione sociale, sola, senza figli, casa popolare”, poche parole ma chiare: con il terremoto Gina si era ritrovata senza più nulla in mano, un passato finito nelle macerie dei palazzi crollati. Raccontai in un servizio la sua storia, tra le tante di quel periodo dolorosamente indimenticabile. Ma, oltre il lavoro, Gina mi era rimasta incollata alla vita, nel profondo dell’anima. Ne parlai con tutti, di quella signora che ogni volta piangeva a dirotto. Ed evidentemente ne parlai così tanto che un collega mise in una busta qualche centinaio di euro. Gliela portai, in uno dei miei viaggi all’Aquila. Le dissi “la apra dopo, c’è un pensierino”. Lei mi chiamò piangendo pochi minuti dopo, di nuovo, dicendomi di ringraziare quel collega. Anche a lui dovrò dare questa notizia, ora. E dirgli che Gins fino alle ultime telefonate si era ricordata di quel gesto, compiuto in silenzio, sei anni fa.

Passarono i mesi, ci perdemmo di vista finché un giorno mi chiamò per chiedermi aiuto. Quello che le stava accadendo aveva dell’incredibile: follie della burocrazia italiana, nessuno sembrava volerle ridare una casa popolare – che pure aveva prima del sisma – perché non aveva fatto la “domandina” giusta nel periodo in cui viveva nei campi degli sfollati.

Quella fu l’unica volta in cui minacciai “faccio arrivare la televisione, è uno scandalo!” chiunque mi capitò a tirò. Telefonate, mail, proteste. Non so se servì, ma alla fine la casa arrivò. E con Gina, ora che “la missione era compiuta” i contatti si fecero più sporadici.

Eppure lei c’era, c’era sempre. C’era, pronta a richiamarmi nonostante spesso non le rispondessi, preso dal lavoro, dalla vita e dai piccoli egoismi del “vabbè, poi la richiamo”.

C’era, Gina, pronta a dirmi “Simone! Ti ho visto in tv l’altra sera, ho detto alle mie amiche che io ti conosco!”.  Mai, mai una volta che ad un mio “Signora! Scusi tanto se non l’ho richiamata subito” lei rispondesse “Ma cinque minuti non li potevi trovare?”. Mai.

A Gina non potevi non volere bene. Non so nulla di più della sua vita di quanto ho scritto, non so che carattere avesse, se avesse peccati o crediti aperti con il Signore. Non lo so. So però che quella voce ce l’ho in testa, adesso che Gina non c’è più.

Quando sono andato a trovarla, a gennaio, riusciva a stento ad alzarsi dalla sedia. Impiegammo quasi dieci minuti per fare pochi metri fino alla porta, tra asma, dolori alla schiena, gambe gonfie. Sembrava avesse ogni tipo di malanno. Mi raccontò che di lì a poco sarebbe dovuta entrare in ospedale per sistemare alcune cosette. Era rassegnata ma io cercai di farle forza. A rivederla ora, quella scena, sembrava quasi che Lei, invece, sapesse tutto. Che a casa non ci sarebbe più tornata.

Quando le dissi di quei nuovi amici che avevano voluto farle quel regalo, quei mille e trecento e rotti euro, stavolta non ebbe sussulti. Ringraziò, contenta, ma continuò a guardare il vuoto. Quasi senza più la forza di sperare. Strano. Fu una sensazione che non raccontai quasi a nessuno.

Che strano incontro, quel nostro ultimo. Con lei che ricordava ancora di quando ero andato a trovarla con una mia fidanzata, nel 2011, ed aveva preparato un centrino da regalarle. Un piccolo regalo, lei che non aveva quasi nulla da dare.

Un sorriso, ecco cosa mi ha dato Gina. Perché un sorriso in fondo non costa nulla. Lo ha dato a me e alle persone speciali che avevano letto la sua storia qui, online, e prima hanno contribuito a mettere insieme quei mille  e trecento euro e poi, in questi mesi, l’hanno sentita per telefono, chiamandola di tanto in tanto per farla sentire meno sola. Io anche, l’ultima volta che mi aveva telefonato, avevo promesso di richiamarla a breve. Non l’ho fatto, purtroppo. Avevo deciso di farlo proprio quando ho saputo, poi, che Lei non c’era più.

Nelle ultime telefonate sembrava più serena, non so se si fosse accorta di quello che stava per accadere. Non so cosa sia successo, motivi di privacy mi impediscono di saperlo, ma forse non conta. Non importa, già. Quello che importa è quanto e cosa ogni persona che incontriamo nel nostro cammino ci lascia dentro.

Grazie a tutti quelli che hanno aiutato Gina, grazie a chi ha avuto un pensiero per Lei, una preghiera. Grazie, a nome suo e anche mio, di cuore.

Il padre di Loris e quello sguardo impossibile da dimenticare

Loris: mamma esce da Questura, affranta e sorretta da marito
Ho intervistato ora Davide Stival, il padre di Loris, per Quarto Grado. Non ha voluto essere ripreso, solo la voce. Non ha quasi più dubbi, si è arreso davanti l’evidenza, l’evidenza dei filmati. Mai, dice, Veronica aveva dato un segnale di squilibrio. Mai lei ha tentennato in questi giorni, nessun segno di cedimento, nulla. E anche la mattina in cui Loris è morto, in quella telefonata che -secondo gli inquirenti – Veronica avrebbe fatto al marito dopo aver ucciso loro figlio, mai questa donna ha dato il seppur minimo segno che qualcosa di strano potesse essere accaduta: “Come è andata oggi, Veronica?”, “Bene, ho portato Loris a scuola e il piccolino in ludoteca”. Nulla, come se nulla fosse accaduto, come se non fosse lei quella madre assassina di cui parla la Procura.
La voce di Davide tremava, pallido in viso. E quegli occhi, quegli occhi che le telecamere non hanno ripreso – come lui ci ha chiesto – io non potrò mai dimenticarli. Occhi di un uomo distrutto, occhi persi nel vuoto, lo sguardo spento per sempre.

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Chi sono

tgcom

Giornalista, 33 anni da poco compiuti e la convinzione di sentirne e averne almeno dieci di meno. Credo nei sogni e mi piace raccontare (oltre ai miei) quelli degli altri, sperando di poter aiutare qualcuno a realizzare i propri, grazie all’opportunità offerta dal blog del Tgcom24. Continua a leggere