In alto c’è un “domani” in blu, in basso “abbraccio” in giallo. Spicca, di viola, un grande “perché”. E poi al centro, tutto di seguito come fosse un hashtag senza respiro, “tenaciaetenerezza” color carta da zucchero.
Decine di parole, che formano – graficamente – una sorta di nuvola colorata, perfetta sintesi della vita di Simone Mori secondo l’algoritmo di uno dei giochini più diffusi di Facebook, “Le parole che io ho usato di più”, una sorta di summa dei nostri pensieri, delle speranze, delle opere e molte volte anche delle omissioni, cioè tutte quelle (di parole) che su Facebook spesso evitiamo di scrivere per non sembrare noiosi, meno interessanti o meno patinati. O forse, più semplicemente, veri. Perché la verità, la realtà, non sempre piace, sparata in faccia con i suoi spigoli che possono fare male.
“Cancro” ad esempio è una parola spigolosa e quindi nella nuvola di Simone stonerebbe quasi. E invece – per chi lo conosce e per chi segue questo blog, che di questo ragazzone di Tivoli già ha parlato – c’è.
È scritta in bianco forse, perché non si vede, ma la si legge ugualmente tra una riga e l’altra, in ogni spazio. Riempie, insomma, quella nuvola di parole e di vita: sì, cancro è la “vita” di Simone da due anni a questa parte. Un ossimoro colorato.
Lo si capisce continuando a guardare bene “la sua nuvola”. E così nella prima riga in alto “Vergata” (arancione) è Tor Vergata, il policlinico in cui segue le sua terapie e che è diventato la sua “certezza” (giallo), quasi una seconda casa.
Ed è ai suoi appuntamenti in ospedale che probabilmente Simone pensa quando, ogni mattina, su Facebook dà il “buongiorno” (blu) alle sue migliaia di follower, persone che nel corso di questi due anni lo hanno aggiunto perché hanno sentito parlare del suo modo di affrontare il linfoma di Hodgkin: con il “sorriso”, con il “cuore”, per tenere duro nonostante la “chemio” (tre parole, tutte gialle, una al fianco dell’altra in terza riga).
Non solo “buongiorno”: sono centinaia i post con cui Simone ha raccontato la sua malattia e la sua filosofia di vita fino a diventare – volente o nolente – un “influencer” della rete, insomma uno che scrive, che comunica, che viene seguito e può “influenzare” chi gli sta accanto. Qualcosa più trendy di un normale “blogger” e di più fashion rispetto a un classico “opinionista”.
E se il termine inglese può far sorridere perché a volte usato a sproposito per improbabili personaggi da cui di farci influenzare non ci passerebbe mai per la testa, non si può non concordare con il fatto che, nel caso di Simone, uno che ti parla di cancro e ti dice ogni giorno che il suo modo di affrontarlo è con #tenaciaetenerezza, non può che farci riflettere e quindi “influenzarci”.
E così mentre siamo in fila alla cassa, mentre siamo in pausa dal lavoro o dallo studio, mentre siamo in bagno, mentre siamo annoiati. Mentre insomma siamo con il cellulare in mano, scorrendo la home di facebook, arriva uno come lui che ti dice che ha questo linfoma di Hodgkin, che pensava di averlo superato ma poi no, poi la ricaduta, i cicli infiniti di chemio, forse l’autotrapianto di cellule anzi, no anche quello, non si può fare e bisogna sperare nel donatore adatto.
E allo stesso tempo ti racconta ora dopo ora della sua forza, della volontà di non chiudersi in se stesso, di provare a farcela, di apprezzare le piccole cose quotidiane che oggi ci sono e che domani potrebbero non esserci più, anche il sapore di un piatto di pasta con l’olio.
E tu che fai? Leggi i suoi post come fossero un diario segreto da sbirciare, una “ultima ora” sulla vita, un capitolo di un libro, un romanzo di formazione, che pagina dopo pagina ti fa crescere. Ti fa capire. Influencer positivo.
E sì, lo pensi: lo pensi che la tua vita è cento volte meglio. Che sei fortunato. Che sbagli a lamentarti per il mignolo che ti fa male o perché l’autobus è arrivato in ritardo. E tifi per lui.
Per lui che a forza di “influenzare” è riuscito a raccogliere migliaia di euro su internet per finanziare la ricerca che punta a sconfiggere il suo Male.
Sono questi gli “influencer” che farebbero bene alla rete. Quelli che affrontano ogni tema senza tirarsi indietro. Usando tutte le parole, senza tabù. Come Simone.
“Paura” (blu scuro) in piccolo. “Forte” (arancione) tra una riga e un’altra. “Percorso” (carta da zucchero). Altre tre parole che ci portano verso il grande “perché” in viola.
Se lo sarà chiesto milioni di volte anche lui: perché? Perché la malattia, perché proprio a me, perché da giovane, perché non finisce questo stillicidio quotidiano. Nella nuvola non c’è una risposta a questa domanda, ma continuando la lettura verso il basso spiccano un grande “abbraccio” in giallo e poco più sotto, in piccolo, una “speranza” blu. Solo parole, forse. O più semplicemente l’augurio di Simone a se stesso – e dei lettori di questo articolo – di un 2017 carico di “finalmente”, di “futuro” e di “vita”. Il colore poco importa, importa solo che siano parole scritte in grande.
#ungiornalistanellarete