A Napoli il taxi dell’onestà

IL BOTTINO – “E tu che lavoro fai?” mi chiede il tassista che a mezzanotte sfreccia via dall’aeroporto di Napoli verso il mio hotel del Centro. “Il giornalista…”, dico io, sguardo al finestrino e il timore del solito pistolotto sulla casta. Sbaglio.

“Uaaa, davvero il giornalista? E allora scusa, te la posso fare una domanda? Ma perché di Napoli e dei tassisti si parla sempre male e una volta che c’è una buona notizia, non ne parla nessuno?”.

Sorrido. “Sentiamo questa notizia”. Ed ecco che Francesco Boccia – sì, come il deputato Pd – 34enne dai Quartieri Spagnoli si apre come un libro aperto a metà strada tra il romanzo di formazione e l’epopea verista: in ogni caso un libro che parla della sua vita, a partire dal motivo di orgoglio degli ultimi giorni, quella “buona notizia”.

“Qualcuno nel mio taxi ha lasciato una borsa con tre blocchetti di assegni” dice Francesco. Assegni vuoti, pronti per essere girati a qualche mariuolo che conosce le arti della truffa: “ma io non li ho neanche toccati eh”. Come pure per il pezzo forte del lotto lasciato, anche lui, sul sedile del taxi. “Un orologio di lusso, roba da tremila euro come questo qui” sorride mostrandomi foto scaricate da internet, prezziario mondiale consultabile con un clic.

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Anno 2015: l’estate del #ciaone

A certe cose bisogna rassegnarsi: in Cina esistono l’anno del serpente, quello del maiale, quello del dragone e così via. In Italia invece,altro che animali, il 2015 è stato l’anno del #ciaone. Inutile negarlo, impossibile non vederlo, la sua diffusione si è estesa a macchia d’olio ed è stato (ab)usato in qualunque modo, sfoggiato, adattato e piegato ad ogni situazione.keep-calm-and-ciaone

Più di una canzone di Alexia negli anni Novanta, più del “dammi tre parole, sole cuore amore” di Valeria Rossi, il tormentone di questa estate non ha neppure la musica di sottofondo e non è composto da tre parole, ma da sei lettere magiche (mah): c-i-a-o-n-e. Insomma, “ciaone is the new black”.

 

Ci ho provato più di una volta, sbracato al sole senza altri pensieri seri, a trovare una spiegazione logica sul perché un semplice saluto che finora, in fondo in fondo, mi era stato sempre simpatico – il caro e vecchio “ciao” – sia stato ingigantito fino ad assumere le sembianze di un gggiovane e figo “ciaone”. Risultato: zero, vuoto totale. E allora la mente è volata ad altri esempi simili che hanno invaso i social network negli ultimi anni.

In principio furono le ragazze che si autoimmortalavano con la boccucca stretta stretta, solitamente davanti allo specchio del bagno (testimone silente della scena, il wc alle loro spalle). Poi arrivò la foto di gambe e piedi sulla spiaggia, primo tormentone iconografico di Facebook, sbeffeggiato da quel genio che pubblicò l’immagine di due wursteloni spacciandoli per gambe abbronzate (ricordate?). Poi ancora fu la volta (l’ho usata anche io, lo ammetto, con soddisfazione) della battuta “no ma… falle due gocce!” ad ogni temporale oppure del “no ma… magnatela ‘na cosetta” espressione virtual romanesca adottata presto nel resto d’Italia di fronte ad una tavola imbandita.

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Sorrisi, selfie e voglia di vivere (sempre di più, nonostante tutto): #patriziasplendequandoballa

Capita a volte, al giornalista di cronaca, di imbattersi in storie che palpitano di vita, che riempiono pensieri e categorie emozionali lasciate vuote o rese aride dal mestiere sul campo, taccuino o microfono in mano, sempre in viaggio.

Capita di incontrarle d’improvviso queste storie, e di non avere il “giusto” spazio in cui raccontarle: il giusto giornale, la giusta trasmissione, il giusto momento, il giusto sentimento.

E allora finiscono in un cassetto, in attesa di essere messe per iscritto. Condivise. Perché una storia più la racconti e più vive, forse.

La “rete” permette ora di superare questi limiti e fornisce al giornalista un prolungamento crossmediatico per raccontare gli sguardi in cui si imbatte quotidianamente. Ed ecco che nasce, così, semplicemente, “ungiornalistanellarete”, questo mio spazio su Tgcom24.

Quella con cui lo voglio inaugurare è la “storia” che forse conosco meglio, quella di una ragazza che per me è un esempio quotidiano, così normale e a tratti “superficiale” in apparenza – persa tra i mille selfie scattati con il suo smartphone -, quanto forte e tenace nel suo difficile cammino di vita. Perché i giudizi affrettati sono sempre sbagliati.

Patriziarisplendequandoballa

Quella ragazza si chiama Patrizia, anche se – fanatica come è – da alcuni preferisce farsi chiamare con il secondo dei tre nomi che porta, decisamente più esotico: Malena.

Ed esotica Patrizia Malena è, in effetti: peruviana, 33 anni, la pelle dorata che d’estate imbrunisce, lei vive, ride, scherza e balla come e più di ogni altra ragazza che io abbia mai conosciuto. Nonostante tutto.

Patrizia infatti non ha più un polmone, da sette anni, e quello che rimane lavora al settanta per cento.

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