A Napoli il taxi dell’onestà

IL BOTTINO – “E tu che lavoro fai?” mi chiede il tassista che a mezzanotte sfreccia via dall’aeroporto di Napoli verso il mio hotel del Centro. “Il giornalista…”, dico io, sguardo al finestrino e il timore del solito pistolotto sulla casta. Sbaglio.

“Uaaa, davvero il giornalista? E allora scusa, te la posso fare una domanda? Ma perché di Napoli e dei tassisti si parla sempre male e una volta che c’è una buona notizia, non ne parla nessuno?”.

Sorrido. “Sentiamo questa notizia”. Ed ecco che Francesco Boccia – sì, come il deputato Pd – 34enne dai Quartieri Spagnoli si apre come un libro aperto a metà strada tra il romanzo di formazione e l’epopea verista: in ogni caso un libro che parla della sua vita, a partire dal motivo di orgoglio degli ultimi giorni, quella “buona notizia”.

“Qualcuno nel mio taxi ha lasciato una borsa con tre blocchetti di assegni” dice Francesco. Assegni vuoti, pronti per essere girati a qualche mariuolo che conosce le arti della truffa: “ma io non li ho neanche toccati eh”. Come pure per il pezzo forte del lotto lasciato, anche lui, sul sedile del taxi. “Un orologio di lusso, roba da tremila euro come questo qui” sorride mostrandomi foto scaricate da internet, prezziario mondiale consultabile con un clic.

“Lo ha dimenticato un primario, un pezzo grosso. E io avrei anche potuto tenermi tutto, perché l’avevo caricato in strada, non era una chiamata prenotata. Insomma, lui il mio nome non lo sapeva e io incassavo”.

E invece no. Invece Francesco si mette testa bassa per cercare di risalire al proprietario di quella borsa finché – grazie all’aiuto della cooperativa La570 – ci riesce e riconsegna il bottino: “Mi ha dato cento euro di ricompensa e poi mille ringraziamenti fino alle lacrime perché quell’orologio era il regalo per il matrimonio del figlio. Oh, se non ci credi puoi chiamarlo, mi ha lasciato il suo bigliettino da visita”.

Guardo quel cartoncino pieno di titoli e penso che in fondo è una sorta di trofeo: il trofeo dell’onestà di Francesco, della sua redenzione. Perché Francesco è il simbolo – nel suo piccolo – dell’Italia migliore, quella che con il lavoro e il rispetto di alcuni valori, va avanti e guarda al futuro. Nonostante il “contesto”.

GLI SPARI, L’AGGUATO – E così, mentre passiamo per Mergellina, questo 34enne con il cappello in testa mi racconta la storia della sua vita. Del padre, proprietario di un’enoteca nei difficili quartieri Spagnoli, che agli inizi dei Duemila “viene sparato” e lasciato a terra, crivellato di colpi in pieno giorno.

“Non aveva fatto male a nessuno, era un uomo onesto. Piccoli precedenti penali sì, ma da giovanissimo e niente a che fare con la Camorra. Poi si è messo a lavorare e non ha più smesso finché non gli hanno sparato”.

Ucciso, freddato da alcuni componenti di un clan a cui apparteneva non lui, non Francesco, ma l’altro figlio, il fratello del mio tassista, “che era un bravo ragazzo prima, poi la droga, le brutte amicizie, i giri loschi, i comportamenti forse scorretti verso quelli del suo clan e quindi loro che decidono di fargliela pagare. Di ucciderlo. Ma non lo trovano e se la prendono con un innocente. Con mio padre insomma. E lo ammazzano”.

Bum, finito tutto, con dei colpi di pistola in una enoteca dei Quartieri Spagnoli. Colpi che segnano la vita di Francesco che – almeno così dice e io non posso fare a meno di credergli e verificare la notizia solo con il mio istinto stavolta, affidandomi al suo sguardo sincero– si dedica all’onestà, al lavoro, alla famiglia: “Guardami, ho trentaquattro anni e non ho mai fumato neppure una sigaretta, lavoro tanto e appena finisco il turno vado a casa per stare con le mie figlie. Io non voglio avere niente a che fare con i giri strani”.

IL FUTURO – Mentre facciamo l’ultimo tratto di strada mi chiede un consiglio “da giornalista”: vorrebbe capire come fare per ottenere Giustizia per il padre, per far sì che vengano tenuti in considerazione i tanti pentiti che hanno parlato, che hanno fatto i nomi degli assassini e raccontato di un regolamento di conti in cui lui è finito in mezzo, senza colpa se non quella del cognome sbagliato, del sangue del suo sangue.

Silenzio nel taxi. Cosa rispondere a Francesco? L’unica soluzione è quella di affidarsi ad un buon avvocato (“l’altro mi si è preso ventimila euro quasi”) e sperare in un magistrato illuminato.

Arriviamo all’hotel, Francesco ferma la macchina. Mi chiede – lui per primo – se ho bisogno di una ricevuta, poi mi spiega il dettaglio della tariffa tra bagaglio, notturno e via dicendo, come una trasparenza difficile da incontrare.

Stretta di mano, la mia promessa di “passare la storia a qualche collega”. Ma stavolta no, stavolta decido di scriverla io mentre lo vedo salire in auto e divorare i chilometri e i minuti verso la fine del turno, con la voglia di tornare a casa, dalla famiglia. Per raccontare di nuovo di quella volta che “ho trovato tre blocchetti di assegni e un orologio da tremila euro” e scherzarci su, immaginare cosa avrebbe magari potuto fare con quella cifra. E poi concludere con un “meglio così: meno soldi in tasca ma almeno stanotte riposo tranquillo”. Onesto. Di una onestà di cui in Italia avremmo tanto bisogno.

P.s. Solo per correttezza segnalo ai miei lettori che il primario che aveva smarrito assegni e orologio è stato da me contattato e non solo ha confermato il tutto, ma ha speso parole di ammirazione per “quel ragazzo che in piena notte è venuto a riportarmi la borsa”.