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La vera storia della mimosa e dell’otto marzo
Chissà se qualcuno le avrà portato oggi un mazzolino di mimose, sulla tomba. Chissà se qualcuno le avrà dedicato un pensiero. Perché è a lei, a Teresa Mattei, che si deve questa usanza, quella di regalare piccoli rami di fiori dal colore acceso, giallo, come il sole.
È l’inizio del 1945 e in Italia si combatte ancora. Teresa ha solo 24 anni ma di storie da raccontare ne ha già molte: a soli 17 anni è stata espulsa da tutte le scuole del Regno d’Italia perché ha contestato le lezioni “in difesa della Razza”, con cui il Regime provava a imporre culturalmente le leggi Razziali antiebraiche, sulla scorta dell’esempio nazista.
L’Aquila, Rosa e la speranza di un Natale migliore
Regaliamole un Natale migliore. Stavolta vi chiedo dei soldi. Non per me però, sia chiaro. E in seconda battuta vi chiedo – se non avete nulla da donare (e ci può stare) – almeno di condividere questa storia, perché magari qualche vostro amico potrebbe essere interessato a dare una mano a Rosa.
Rosa è una anziana signora che vive all’Aquila. Una di quelle che con il terremoto hanno perso tutto. In realtà non si chiama neppure così, ma di usare il suo vero nome, capirete, non mi pareva il caso.
L’ho conosciuta nell’aprile del 2009 nel campo di Paganica, uno di quelli messi su in 24 ore dalla Protezione Civile per assistere gli sfollati del terremoto che aveva messo in ginocchio l’Abruzzo.
Ancora me lo ricordo quell’incontro, durante alcune interviste, una “vox populi” per raccontare la vita nel campo. D’improvviso, nel mezzo della risposta, questa signora anziana scoppia a piangere. A dirotto. “Signora si calmi”, le dico io. Non si ferma. Spegniamo la camera e lei – un fiume in piena – mi racconta tutta la sua vita.
Scopro allora che Rosa è sola, non è sposata e non ha figli. Ha lavorato tanti anni, fino alla pensione, come infermiera, e visto il tipo non dubito che sia stata una di quelle che hanno davvero dedicato la vita al prossimo. E’ malata, soffre di asma, grave, in tenda aveva la bombola con l’ossigeno. Non mancano altre patologie.
Il padre di Loris e quello sguardo impossibile da dimenticare
Ho intervistato ora Davide Stival, il padre di Loris, per Quarto Grado. Non ha voluto essere ripreso, solo la voce. Non ha quasi più dubbi, si è arreso davanti l’evidenza, l’evidenza dei filmati. Mai, dice, Veronica aveva dato un segnale di squilibrio. Mai lei ha tentennato in questi giorni, nessun segno di cedimento, nulla. E anche la mattina in cui Loris è morto, in quella telefonata che -secondo gli inquirenti – Veronica avrebbe fatto al marito dopo aver ucciso loro figlio, mai questa donna ha dato il seppur minimo segno che qualcosa di strano potesse essere accaduta: “Come è andata oggi, Veronica?”, “Bene, ho portato Loris a scuola e il piccolino in ludoteca”. Nulla, come se nulla fosse accaduto, come se non fosse lei quella madre assassina di cui parla la Procura.
La voce di Davide tremava, pallido in viso. E quegli occhi, quegli occhi che le telecamere non hanno ripreso – come lui ci ha chiesto – io non potrò mai dimenticarli. Occhi di un uomo distrutto, occhi persi nel vuoto, lo sguardo spento per sempre.
Valentina Salamone, altri sei mesi di indagini
In un mestiere in cui – per forza di cose – le notizie che capita di dare sono spesso brutte e hanno a che fare con la sofferenza delle persone, oggi finalmente una “buona” nuova.
Ed è una notizia che racconta della speranza di una famiglia, una speranza che può continuare a bruciare come una solida fiammella, per altri sei mesi e – ne sono convinto – continuerà a farlo ancora per molto. Sei mesi, come quelli concessi di proroga alle indagini sull’omicidio di Valentina Salamone.
è sua la famiglia che può continuare a sperare, quella di questa ragazza di soli diciannove anni portata via da qualcuno che conosceva – chi sia stato sarà la Giustizia a dirlo, prima o poi – nell’estate di quattro anni fa. Qualcuno che le ha tolto la vita e ha simulato una impiccagione, per far credere che Valentina avesse deciso di andarsene di sua spontanea volontà, magari – come ha detto qualcuno – “perché le cose in famiglia andavano male”.
In questi anni i genitori, le sorelle e il fratello di Valentina (come anche le sue amiche), hanno dovuto sopportare ogni affronto e l’hanno fatto in silenzio, con discrezione. “Si è uccisa per colpa del padre, glielo devi dire” mi ha detto con la rabbia di un animale ferito, puntandomi un dito contro, uno di quegli “amici” che erano con lei l’ultima sera di vita di Valentina. Uno dei tanti ragazzi che – ne sono convinti gli inquirenti – sanno molto di più di quanto hanno raccontato.
Perché la vita continua, è bellissima “e non mi posso lamentare”
Il primo post che ho pubblicato su questo blog raccontava la storia di Patrizia, sopravvissuta ad un tumore che l’ha costretta anche a perdere una bimba, al sesto mese di gravidanza. Dopo quel post ho ricevuto molti commenti, che non mi aspettavo. Non so perché ma qualcuno mi ha scritto per raccontarmi la sua storia. Due persone in particolar modo mi hanno colpito. Due ragazze che non ho mai conosciuto nella vita reale. Solo virtualmente, quello sì. Ne leggo i post, ci confrontiamo su argomenti di lavoro (siamo più o meno colleghi) e non, sulla trasmissione per cui lavoro.
Ecco, queste due ragazze mi hanno raccontato della loro malattia. Non lo avevano mai fatto, in mesi di chiacchierate virtuali e in decine di post commentati, dall’una e dall’altra parte. Sembravano due ragazze senza problemi: una famiglia serena, un lavoro altrettanto sereno e nessun tipo di “guaio”, tantomeno nell’ambito della salute.
Poi, un giorno, scopri di colpo, con un loro messaggio, la loro storia. Vera, che nulla ha a che vedere con la virtualità. Storie che ti fanno ripetere ancora una volta, “ma io ce la farei? Riuscirei a fare altrettanto?”. E capisci, di nuovo, l’importanza della vita, dell’amore, della forza di volontà. Li riporto integralmente, i loro messaggi, senza toccarli. Partono da due realtà e approcci lontanissimi tra loro: da una parte una malattia affrontata in maniera “condivisa” con familiari e amici. Dall’altra la volontà di farcela da soli, senza dire, senza parlare, con nessuno. Se non con gli occhi. Eppure il punto di approdo, il finale, è simile. E anche il retrogusto che lasciano in bocca a chi, comodo in poltrona, le legge come fossero pagine di un libro. Un libro basato su due storie vere. A voi la riflessione.
Ecco il primo messaggio:
“Quello che hai scritto mi tocca particolarmente. Da sei anni, ormai, anche io lotto contro il cancro. Un linfoma di Hodgkin, che mi ha tolto tantissime cose, ma mai la voglia di vivere e di sperare. Sono ormai alla settima recidiva in sei anni. Ho già affrontato oltre 30 cicli di chemio, due trapianti di midollo, la radioterapia, due anni fa l’asportazione della milza.
Sorrisi, selfie e voglia di vivere (sempre di più, nonostante tutto): #patriziasplendequandoballa
Capita a volte, al giornalista di cronaca, di imbattersi in storie che palpitano di vita, che riempiono pensieri e categorie emozionali lasciate vuote o rese aride dal mestiere sul campo, taccuino o microfono in mano, sempre in viaggio.
Capita di incontrarle d’improvviso queste storie, e di non avere il “giusto” spazio in cui raccontarle: il giusto giornale, la giusta trasmissione, il giusto momento, il giusto sentimento.
E allora finiscono in un cassetto, in attesa di essere messe per iscritto. Condivise. Perché una storia più la racconti e più vive, forse.
La “rete” permette ora di superare questi limiti e fornisce al giornalista un prolungamento crossmediatico per raccontare gli sguardi in cui si imbatte quotidianamente. Ed ecco che nasce, così, semplicemente, “ungiornalistanellarete”, questo mio spazio su Tgcom24.
Quella con cui lo voglio inaugurare è la “storia” che forse conosco meglio, quella di una ragazza che per me è un esempio quotidiano, così normale e a tratti “superficiale” in apparenza – persa tra i mille selfie scattati con il suo smartphone -, quanto forte e tenace nel suo difficile cammino di vita. Perché i giudizi affrettati sono sempre sbagliati.
Quella ragazza si chiama Patrizia, anche se – fanatica come è – da alcuni preferisce farsi chiamare con il secondo dei tre nomi che porta, decisamente più esotico: Malena.
Ed esotica Patrizia Malena è, in effetti: peruviana, 33 anni, la pelle dorata che d’estate imbrunisce, lei vive, ride, scherza e balla come e più di ogni altra ragazza che io abbia mai conosciuto. Nonostante tutto.
Patrizia infatti non ha più un polmone, da sette anni, e quello che rimane lavora al settanta per cento.
Un mondo di baci(ni) per aiutare Ahmed: #unbacinoperahmed
Le parole le ha sempre sapute usare bene, Ahmed Barkhia. Lo fa da quando è nato: una capacità unica di dipingere mondi con fare affabulatorio e fiabesco, per conquistare chi gli sta davanti tra mille racconti dal sapore futuristico. Da alcuni anni lo fa anche in una web radio, dai cui microfoni snocciola la sua filosofia, quella della “generazione startup”, dello “stare in movimento”, del “faccio cose, vedo gente” di morettiana memoria.
E nei suoi intensi racconti l’interlocutore potrebbe finire per perdersi, appassionandosi a quelle pagine da romanzo di Salgari, fino a immaginarselo – lui, affetto fin dalla nascita da nanismo ipofisario – nelle situazioni più disparate: magari eroe capace di mettere in fuga feroci rapinatori a mani nude oppure campione di calcio in grado di smarcare anche il Ronaldo dei tempi migliori, a San Siro, in una partita da manuale del calcio.
Quella che Ahmed sta vivendo ora sulla sua pelle però, di storia, non è facile da raccontare. Persino per chi come lui le parole le fa girare come un giocoliere con i birilli, lanciandoli in aria con maestria. Continua a leggere