L’influencer positivo: contro il cancro con #tenaciaetenerezza

In alto c’è un “domani” in blu, in basso “abbraccio” in giallo. Spicca, di viola, un grande “perché”. E poi al centro, tutto di seguito come fosse un hashtag senza respiro, “tenaciaetenerezza” color carta da zucchero.

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Decine di parole, che formano – graficamente – una sorta di nuvola colorata, perfetta sintesi della vita di Simone Mori secondo l’algoritmo di uno dei giochini più diffusi di Facebook, “Le parole che io ho usato di più”, una sorta di summa dei nostri pensieri, delle speranze, delle opere e molte volte anche delle omissioni, cioè tutte quelle (di parole) che su Facebook spesso evitiamo di scrivere per non sembrare noiosi, meno interessanti o meno patinati. O forse, più semplicemente, veri. Perché la verità, la realtà, non sempre piace, sparata in faccia con i suoi spigoli che possono fare male.

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Lorys, la verità due anni dopo

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Sono passati due anni dalla morte del piccolo Lorys Stival, che di anni ne aveva appena otto, interrotti di colpo la mattina del 29 novembre 2014.  Dopo un tortuoso cammino processuale si è arrivati finalmente ad una prima verità, una sentenza di colpevolezza pesante come un macigno: trent’anni di carcere e il marchio infamante di madre assassina per Veronica Panarello.

È questo quindi, più che mai, il momento dei “fatti”, da riportare senza interpretazioni personali da “fan” di una o dell’altra teoria. Fatti nudi e crudi, basati solo su quanto letto e trovato nei documenti, come recita il “mantra” che vige nella redazione di Quarto Grado.

I fatti che esporrò  – raggruppati per macro argomenti come fosse una sorta di piccolo vademecum a cui affidarsi – faranno riferimento solo ed esclusivamente a dati che ho letto in prima persona e ho raccolto dopo aver studiato assieme ai colleghi migliaia di pagine, intervistato centinaia di persone.

In pochi hanno letto tutto il materiale probatorio. In troppi si trasformano in detective senza averne né il ruolo né gli strumenti necessari per sostenere alcune teorie, spacciando spesso proprie supposizioni per verità inconfutabili.

Credo insomma ci sia bisogno di fare chiarezza: fin dai primi giorni ho seguito questa triste vicenda per Quarto Grado e posso dire con certezza che mai come in questo caso ho assistito a cumuli di bugie, menzogne alimentate da alcuni media (soprattutto blog che nulla hanno di giornalistico) e rilanciate con il chiacchiericcio di facebook fino quasi a farsi verità. Mai ho visto – tranne forse con la vicenda Bossetti – orde di innocentisti e colpevolisti fronteggiarsi in accuse reciproche e cattiverie, attacchi frontali che non lasciano a terra la verità ma solo vite rovinate.

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Lorys, il momento della riflessione

Per quasi due anni ho seguito per Quarto Grado il “caso Panarello”. Ieri una sentenza l’ha condannata a trent’anni di carcere, alla perdita della potestà genitoriale, al risarcimento delle parti civili.
Credo quindi sia il momento di un bilancio, di una riflessione.
Il primo pensiero va al bambino, di cui tutti noi abbiamo parlato, immaginandolo, ricostruendone pensieri e vita attraverso i racconti di familiari e amici. Attraverso le foto, i video.
Quel bambino ha visto – questo ci dice la sentenza, ora – sua madre mentre lo uccideva. L’ha guardata negli occhi, mentre con delle forbici appuntite cercava di liberare il suo collo da una fascetta di plastica troppo stretta che lei stessa gli aveva messo.
Sono convinto sia stata una “punizione eccessiva finita male” e non un gesto voluto, perché non riesco ad immaginare che una madre possa arrivare a tanto.

Loris: mamma esce da Questura, affranta e sorretta da marito
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Serena Mollicone: anniversario con speranza

Quindici anni esatti di indagini, di segreti, di sospetti. Quindici anni di speranze e di attesa per Guglielmo Mollicone, il padre di Serena, ritrovata senza vita e con il volto coperto da un sacchetto di plastica il 3 giugno del 2001 in un bosco a pochi chilometri da Arce, il paesino vicino Cassino in cui viveva e da cui era scomparsa due giorni prima.

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È proprio a Cassino che bisogna andare con la mente, in questo anniversario simbolicamente carico di significati, perché è lì che la Procura sta continuando a lavorare, rimettendo di nuovo in discussione quella che era divenuta una certezza per molti, tranne che per la famiglia di Serena, dal padre Guglielmo allo zio Romeo, alla cugina Gaia: e cioè che non ci fosse nulla da fare, che non esistesse più nessuna pista da seguire.

E invece no. Non sappiamo quale destino seguiranno le nuove indagini, ma per la prima volta abbiamo assistito all’ingresso del Ris nella caserma di Arce, il luogo indicato fin dall’inizio dal padre di Serena come quello in cui “qualcosa” era di sicuro successo. Qualcosa di brutto, qualcosa di indicibile.

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Chi ha ucciso Silvana Pica?

Dopo quattro anni e una archiviazione, sono ripartite le indagini sulla scomparsa di Silvana Pica, la cinquantasettenne di Pescara di cui non si ha più traccia dal 17 gennaio 2012. Con un clamoroso cambio di passo: dal suo allontanamento volontario si passa, ora, ad ipotizzarne l’omicidio.

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Nel tardo pomeriggio di quel freddo martedì Silvana – un passato con problemi psichiatrici tenuti finalmente sotto controllo grazie ad una terapia rigorosa – si presenta a casa di Giovanna Rosica, la suocera, madre di Vincenzo Berghella, l’ex marito da cui è separata da anni.

Anni di dispute legali, di sofferenze e lettere d’amore mai inviate ma confidate alle amiche. E proprio due giorni dopo, il 19 gennaio, è fissata una  nuova udienza per la spartizione di alcuni beni cointestati con Berghella.

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Simone e la sua #forzaecoraggio

“Se la febbre non passa, mercoledì mi ricovereranno. Sbatterei la testa al muro ma cosa cambierebbe? E allora accettiamo il più possibile quello che la vita ci propone. Un abbraccio a tutti di vero cuore”.

Simone si chiama come me. Ha passato la trentina, ma non da troppo (credo), come me. Simone aveva tanti capelli ricci. Simone ora ne ha qualcuno in meno, ma ricresceranno. Simone sorride. Simone è forte come io non saprei esserlo mai. Perché Simone ha un linfoma, che io fortunatamente non ho, e lo affronta aprendosi al mondo, raccontandolo senza eroismi e senza pietismi. Anche da una stanza di ospedale, anche dalla chemioterapia.

Simone ha aggiunto una parola tra il suo nome e il suo cognome, su Facebook. Quella parola è quasi uno slogan, un hashtag, come quelli che si usano soprattutto su Twitter, come quelli che utilizza Matteo Renzi per comunicare la svolta buona. Simone ora è “Forzaecoraggio”.

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“Il linfoma si è riacceso.Inizierò una nuova tipologia di chemioterapia nei prossimi giorni. La strada diventa un po’ più difficile ma come sapete io non mollerò mai. Ci proverò sempre e comunque. Vi chiedo solo di avere pazienza se non rispondo subito a telefonate, sms, e Whatsapp. In ospedale è più complicato. Vi abbraccio forte ‪#‎Forzaecoraggio .

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Serena Mollicone, un delitto che chiede Giustizia da quattordici anni

Cinquemiladuecentodiciannove giorni senza colpevole. Poco più di quattordici anni da quel 3 giugno del 2001 in cui Serena Mollicone venne ritrovata senza vita in un bosco vicino ad Arce, il paese in provincia di Frosinone in cui viveva con la sorella Consuelo e con il papà Guglielmo.

Il suo assassino non ha ancora un volto, eppure le indagini sembrano essere purtroppo destinate a finire, dopo che la Procura di Cassino ha chiesto di archiviare l’inchiesta su questo giallo dalle tinte rosse come il sangue. Un mistero che non fa chiudere occhio a chi purtroppo non ne ha semplicemente sentito parlare in tv, ma ne ha vissuto sulla pelle i momenti più bui, le speranze ad ogni svolta annunciata e poi le delusioni, i dolori. Le sofferenze, incominciate d’improvviso in quegli inizi dell’estate del 2001 e non ancora sopite, graffianti come i dubbi di questa vicenda.

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Serena scompare venerdì primo giugno di quell’anno: ha un appuntamento con Michele, il fidanzato, alle due del pomeriggio. Ma non si presenta. Dopo 48 ore viene ritrovata senza vita: un’unica ferita alla tempia sinistra, un sacchetto attorno la testa. Il colpo – dirà l’autopsia – non è stato letale: Serena – morta per asfissia – poteva salvarsi.

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Il Comune di Roma vuole sfrattare il Museo dei Videogiochi: #VIGAMUSNONSISFRATTA

È una vergogna. Finisce sotto sfratto – e dal Comune di Roma – Vigamus, il Museo dei Videogiochi (e molto altro) della Capitale, divenuto nell’arco di pochi anni punto di riferimento delle (sotto)culture giovanili romane, che in quei locali hanno trovato luogo di incontro, di sfogo, di espressione. Una realtà vivace da 80mila visitatori l’anno, tra i pochi musei del genere al mondo, gemellata con l’omonimo museo di Berlino. Tutto destinato a finire, forse. A chiudere, ad essere cancellato con un colpo di spugna. E questa cosa non può passare nel silenzio: è una questione non di principio ma di merito, di diritto di espressione.

Negli anni Ottanta la battaglia contro i videogiochi si combatteva sui giornali, dove i soloni dal dito puntato si ergevano a moralizzatori dei costumi, scorgendo proprio in quel mondo virtuale (il primo – o quasi – noto al grande pubblico) il declino dei costumi e un rischio per il benessere psicofisico dei propri figli. Il tempo ha dimostrato che avevano torto, come chi prima di loro (probabilmente gli stessi) aveva tuonato contro i cartoni animati, “violenti e ispiratori d’odio”.

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“Le più belle frasi di Osho”, quando la satira su Facebook incontra un santone indiano

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“Se po’ avè ‘n goccetto de sambuca?” dice in romanesco la scritta sopra la foto d’epoca che ritrae il “santone” indiano con una tazzina in mano. E “Chi non salta un Sai Baba è…” è invece il commento ad uno scatto in bianco e nero di lui in piedi, con le braccia alzate, davanti ad una folla adorante. Ancora: “No, ma falle due gocce”, mentre tiene in mano un ombrello.

 

Sono solo alcune delle decine, centinaia di immagini che stanno decretando in rete il successo della pagina Facebook Le più belle frasi di Osho, dissacrante satira che coinvolge Osho, al secolo Chandra Mohan Jain, discussa guida spirituale indiana (che ricorda in alcuni passaggi la figura di Sai Baba) che tra gli anni Settanta e Ottanta ha attirato prima nel suo Paese e poi negli Stati Uniti decine di migliaia di discepoli soprattutto occidentali innamorati della sua visione trascendente (e in buona parte discussa) della vita e del mondo.

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Un 25 aprile di Liberazione

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Nata per resistere l’Italia. Nata dalla Resistenza. Sono passati settant’anni da quando il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò l’insurrezione armata contro le milizie nazifasciste che occupavano il Paese: era il 25 aprile del 1945.

Cosa rimane di quello spirito, così alto? Rimane un’Italia che si fonda su una Costituzione democratica -tra le più belle del mondo -, frutto del giusto compromesso – e non al ribasso per una volta – tra diverse correnti di pensiero: quella liberale, quella cristiana, quella azionista, quelle socialista e comunista. Mai, mai prima di quel momento nel nostro Paese si era arrivati ad un punto di incontro così alto. Ed è per questo che la Resistenza deve essere un patrimonio comune e condiviso, che non può e non deve avere un colore politico, ma entrare invece nelle arterie di quello stesso Paese, come linfa vitale, come esempio civico per il futuro, ora che le generazioni che il dolore della Guerra l’hanno vissuto sulla propria pelle, si stanno spegnendo. Quel fuoco no, quello della libertà no, deve rimanere acceso. Deve Resistere anche lui.

Ed è nata per Resistere, dunque, anche l’Italia repubblicana. Al fascismo, come primo punto, dopo la barbarie che l’aveva sconvolta. Una ideologia totalitaria che – come tutti i totalitarismi – ha piegato un popolo e i suoi diritti per venti lunghi anni, ha provocato vittime, ha persino coltivato odio verso una categoria di cittadini – gli ebrei – vessati, umiliati e rinnegati, nella vita stessa e nella dignità umana, solo in nome di una ideologia. Di una esaltazione di massa, plebiscitaria.

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