Serena Mollicone, un delitto che chiede Giustizia da quattordici anni

Cinquemiladuecentodiciannove giorni senza colpevole. Poco più di quattordici anni da quel 3 giugno del 2001 in cui Serena Mollicone venne ritrovata senza vita in un bosco vicino ad Arce, il paese in provincia di Frosinone in cui viveva con la sorella Consuelo e con il papà Guglielmo.

Il suo assassino non ha ancora un volto, eppure le indagini sembrano essere purtroppo destinate a finire, dopo che la Procura di Cassino ha chiesto di archiviare l’inchiesta su questo giallo dalle tinte rosse come il sangue. Un mistero che non fa chiudere occhio a chi purtroppo non ne ha semplicemente sentito parlare in tv, ma ne ha vissuto sulla pelle i momenti più bui, le speranze ad ogni svolta annunciata e poi le delusioni, i dolori. Le sofferenze, incominciate d’improvviso in quegli inizi dell’estate del 2001 e non ancora sopite, graffianti come i dubbi di questa vicenda.

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Serena scompare venerdì primo giugno di quell’anno: ha un appuntamento con Michele, il fidanzato, alle due del pomeriggio. Ma non si presenta. Dopo 48 ore viene ritrovata senza vita: un’unica ferita alla tempia sinistra, un sacchetto attorno la testa. Il colpo – dirà l’autopsia – non è stato letale: Serena – morta per asfissia – poteva salvarsi.

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Anno 2015: l’estate del #ciaone

A certe cose bisogna rassegnarsi: in Cina esistono l’anno del serpente, quello del maiale, quello del dragone e così via. In Italia invece,altro che animali, il 2015 è stato l’anno del #ciaone. Inutile negarlo, impossibile non vederlo, la sua diffusione si è estesa a macchia d’olio ed è stato (ab)usato in qualunque modo, sfoggiato, adattato e piegato ad ogni situazione.keep-calm-and-ciaone

Più di una canzone di Alexia negli anni Novanta, più del “dammi tre parole, sole cuore amore” di Valeria Rossi, il tormentone di questa estate non ha neppure la musica di sottofondo e non è composto da tre parole, ma da sei lettere magiche (mah): c-i-a-o-n-e. Insomma, “ciaone is the new black”.

 

Ci ho provato più di una volta, sbracato al sole senza altri pensieri seri, a trovare una spiegazione logica sul perché un semplice saluto che finora, in fondo in fondo, mi era stato sempre simpatico – il caro e vecchio “ciao” – sia stato ingigantito fino ad assumere le sembianze di un gggiovane e figo “ciaone”. Risultato: zero, vuoto totale. E allora la mente è volata ad altri esempi simili che hanno invaso i social network negli ultimi anni.

In principio furono le ragazze che si autoimmortalavano con la boccucca stretta stretta, solitamente davanti allo specchio del bagno (testimone silente della scena, il wc alle loro spalle). Poi arrivò la foto di gambe e piedi sulla spiaggia, primo tormentone iconografico di Facebook, sbeffeggiato da quel genio che pubblicò l’immagine di due wursteloni spacciandoli per gambe abbronzate (ricordate?). Poi ancora fu la volta (l’ho usata anche io, lo ammetto, con soddisfazione) della battuta “no ma… falle due gocce!” ad ogni temporale oppure del “no ma… magnatela ‘na cosetta” espressione virtual romanesca adottata presto nel resto d’Italia di fronte ad una tavola imbandita.

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Il Comune di Roma vuole sfrattare il Museo dei Videogiochi: #VIGAMUSNONSISFRATTA

È una vergogna. Finisce sotto sfratto – e dal Comune di Roma – Vigamus, il Museo dei Videogiochi (e molto altro) della Capitale, divenuto nell’arco di pochi anni punto di riferimento delle (sotto)culture giovanili romane, che in quei locali hanno trovato luogo di incontro, di sfogo, di espressione. Una realtà vivace da 80mila visitatori l’anno, tra i pochi musei del genere al mondo, gemellata con l’omonimo museo di Berlino. Tutto destinato a finire, forse. A chiudere, ad essere cancellato con un colpo di spugna. E questa cosa non può passare nel silenzio: è una questione non di principio ma di merito, di diritto di espressione.

Negli anni Ottanta la battaglia contro i videogiochi si combatteva sui giornali, dove i soloni dal dito puntato si ergevano a moralizzatori dei costumi, scorgendo proprio in quel mondo virtuale (il primo – o quasi – noto al grande pubblico) il declino dei costumi e un rischio per il benessere psicofisico dei propri figli. Il tempo ha dimostrato che avevano torto, come chi prima di loro (probabilmente gli stessi) aveva tuonato contro i cartoni animati, “violenti e ispiratori d’odio”.

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“Le più belle frasi di Osho”, quando la satira su Facebook incontra un santone indiano

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“Se po’ avè ‘n goccetto de sambuca?” dice in romanesco la scritta sopra la foto d’epoca che ritrae il “santone” indiano con una tazzina in mano. E “Chi non salta un Sai Baba è…” è invece il commento ad uno scatto in bianco e nero di lui in piedi, con le braccia alzate, davanti ad una folla adorante. Ancora: “No, ma falle due gocce”, mentre tiene in mano un ombrello.

 

Sono solo alcune delle decine, centinaia di immagini che stanno decretando in rete il successo della pagina Facebook Le più belle frasi di Osho, dissacrante satira che coinvolge Osho, al secolo Chandra Mohan Jain, discussa guida spirituale indiana (che ricorda in alcuni passaggi la figura di Sai Baba) che tra gli anni Settanta e Ottanta ha attirato prima nel suo Paese e poi negli Stati Uniti decine di migliaia di discepoli soprattutto occidentali innamorati della sua visione trascendente (e in buona parte discussa) della vita e del mondo.

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Un 25 aprile di Liberazione

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Nata per resistere l’Italia. Nata dalla Resistenza. Sono passati settant’anni da quando il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò l’insurrezione armata contro le milizie nazifasciste che occupavano il Paese: era il 25 aprile del 1945.

Cosa rimane di quello spirito, così alto? Rimane un’Italia che si fonda su una Costituzione democratica -tra le più belle del mondo -, frutto del giusto compromesso – e non al ribasso per una volta – tra diverse correnti di pensiero: quella liberale, quella cristiana, quella azionista, quelle socialista e comunista. Mai, mai prima di quel momento nel nostro Paese si era arrivati ad un punto di incontro così alto. Ed è per questo che la Resistenza deve essere un patrimonio comune e condiviso, che non può e non deve avere un colore politico, ma entrare invece nelle arterie di quello stesso Paese, come linfa vitale, come esempio civico per il futuro, ora che le generazioni che il dolore della Guerra l’hanno vissuto sulla propria pelle, si stanno spegnendo. Quel fuoco no, quello della libertà no, deve rimanere acceso. Deve Resistere anche lui.

Ed è nata per Resistere, dunque, anche l’Italia repubblicana. Al fascismo, come primo punto, dopo la barbarie che l’aveva sconvolta. Una ideologia totalitaria che – come tutti i totalitarismi – ha piegato un popolo e i suoi diritti per venti lunghi anni, ha provocato vittime, ha persino coltivato odio verso una categoria di cittadini – gli ebrei – vessati, umiliati e rinnegati, nella vita stessa e nella dignità umana, solo in nome di una ideologia. Di una esaltazione di massa, plebiscitaria.

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I sorrisi di Gina, che non c’è più

Appena pochi mesi fa avevo scritto un post su di Lei, per provare a raccogliere dei fondi per darle una mano, perché le sue condizioni di salute stavano precipitando. E in tanti si erano mossi, in quell’occasione. A quei tanti, ora, do una notizia triste, di quelle difficili da dare, le peggiori: Rosa non c’è più, non ce l’ha fatta. Si è spenta poco prima di Pasqua, in clinica, in quell’Abruzzo che amava e in cui aveva vissuto il dolore del terremoto. Non è arrivata al sesto anniversario di quel sisma che le aveva portato via tutto e che l’aveva… Continua a leggere


La vera storia della mimosa e dell’otto marzo

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Chissà se qualcuno le avrà portato oggi un mazzolino di mimose, sulla tomba. Chissà se qualcuno le avrà dedicato un pensiero. Perché è a lei, a Teresa Mattei, che si deve questa usanza, quella di regalare piccoli rami di fiori dal colore acceso, giallo, come il sole.

È l’inizio del 1945 e in Italia si combatte ancora. Teresa ha solo 24 anni ma di storie da raccontare ne ha già molte: a soli 17 anni è stata espulsa da tutte le scuole del Regno d’Italia perché ha contestato le lezioni “in difesa della Razza”, con cui il Regime provava a imporre culturalmente le leggi Razziali antiebraiche, sulla scorta dell’esempio nazista.

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Buon compleanno Quarto Grado

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Ci siamo. Cinque anni sono passati dalla prima puntata di Quarto Grado. Era il 7 marzo del 2010 e pareva impossibile, allora, provare a fare informazione in prima serata con un programma interamente dedicato alla Cronaca, di quella con la maiuscola: i casi “duri”, la cronaca giudiziaria, i gialli irrisolti. In molti ci avevano provato, esperimenti durati spesso poco più di un battito di ciglia. Ora toccava a noi, una squadra mista, composta di giovani cronisti ed esperti inviati. Pochi forse, nel numero, ma con una grande carica, tanto entusiasmo.

Era gennaio quando mi dissero di quel nuovo programma e mi chiesero se volevo farne parte. Volai a Milano per conoscere Siria Magri, una vita da conduttrice e caporedattrice a Studio Aperto. Una che la cronaca e la passione per questo lavoro ce le ha dentro, amori che pulsano forti, fin quasi a poterne sentire il battito.

A reggere le fila della redazione trovai Rosa Teruzzi, con cui avevo già lavorato a Verissimo. Una penna fina, una che di misteri se ne intende, a furia di scrivere romanzi gialli che parlano – chissà chi sarà poi – proprio di una giornalista che ha iniziato giovanissima e che ha un fiuto della notizia così spiccato da essere chiamata “Lessie”: “vai, e porta l’osso a casa” le dicono i colleghi.

La prima puntata la ricordo ancora. Il viaggio alla scoperta della storia di Matilda, una piccola vita persa senza che ad oggi – a dieci anni di distanza – ci sia un colpevole. E poi, uno dopo l’altro, i vari casi che avevano colpito il Paese: Novi Ligure, Cogne, Garlasco.

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L’Aquila, Rosa e la speranza di un Natale migliore

Regaliamole un Natale migliore. Stavolta vi chiedo dei soldi. Non per me però, sia chiaro. E in seconda battuta vi chiedo – se non avete nulla da donare (e ci può stare) – almeno di condividere questa storia, perché magari qualche vostro amico potrebbe essere interessato a dare una mano a Rosa.

Rosa è una anziana signora che vive all’Aquila. Una di quelle che con il terremoto hanno perso tutto. In realtà non si chiama neppure così, ma di usare il suo vero nome, capirete, non mi pareva il caso.

L’ho conosciuta nell’aprile del 2009 nel campo di Paganica, uno di quelli messi su in 24 ore dalla Protezione Civile per assistere gli sfollati del terremoto che aveva messo in ginocchio l’Abruzzo.

Ancora me lo ricordo quell’incontro, durante alcune interviste, una “vox populi” per raccontare la vita nel campo. D’improvviso, nel mezzo della risposta, questa signora anziana scoppia a piangere. A dirotto. “Signora si calmi”, le dico io. Non si ferma. Spegniamo la camera e lei – un fiume in piena – mi racconta tutta la sua vita.

Scopro allora che Rosa è sola, non è sposata e non ha figli. Ha lavorato tanti anni, fino alla pensione, come infermiera, e visto il tipo non dubito che sia stata una di quelle che hanno davvero dedicato la vita al prossimo. E’ malata, soffre di asma, grave, in tenda aveva la bombola con l’ossigeno. Non mancano altre patologie.

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Il padre di Loris e quello sguardo impossibile da dimenticare

Loris: mamma esce da Questura, affranta e sorretta da marito
Ho intervistato ora Davide Stival, il padre di Loris, per Quarto Grado. Non ha voluto essere ripreso, solo la voce. Non ha quasi più dubbi, si è arreso davanti l’evidenza, l’evidenza dei filmati. Mai, dice, Veronica aveva dato un segnale di squilibrio. Mai lei ha tentennato in questi giorni, nessun segno di cedimento, nulla. E anche la mattina in cui Loris è morto, in quella telefonata che -secondo gli inquirenti – Veronica avrebbe fatto al marito dopo aver ucciso loro figlio, mai questa donna ha dato il seppur minimo segno che qualcosa di strano potesse essere accaduta: “Come è andata oggi, Veronica?”, “Bene, ho portato Loris a scuola e il piccolino in ludoteca”. Nulla, come se nulla fosse accaduto, come se non fosse lei quella madre assassina di cui parla la Procura.
La voce di Davide tremava, pallido in viso. E quegli occhi, quegli occhi che le telecamere non hanno ripreso – come lui ci ha chiesto – io non potrò mai dimenticarli. Occhi di un uomo distrutto, occhi persi nel vuoto, lo sguardo spento per sempre.

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